Criptovalute e sovranità, intervista ad Andres Arauz
Crypto Intervista a Andres Arauz, politico ed economista ecuadoriano, membro del governo di Rafael Correa tra il 2015 e il 2017
Crypto Intervista a Andres Arauz, politico ed economista ecuadoriano, membro del governo di Rafael Correa tra il 2015 e il 2017
Andres Arauz è un politico ed economista ecuadoriano, membro del governo di Rafael Correa tra il 2015 e il 2017.
Attualmente nel nord del mondo si parla tantissimo di NFT, token, DAO e altre innovazioni fondate sul blockchain. C’è una strana forma di populismo di sinistra legato a esse. Con le parole di un noto capitalista finanziario americano, tutto è già finanziarizzato, quindi bisogna smettere di lamentarsi e buttarsi nell’azione: dovremmo tutti trovare un modo di sfruttare la finanziarizzazione in corso a nostro vantaggio. Cosa pensa di questi sviluppi e del loro potenziale politico?
E’ importante comprendere questi processi nel contesto della crisi finanziaria globale del 2008, perché non hanno solo originato i Bitcoin e tutto ciò che è venuto dopo, ma anche il quantitative easing e altre politiche monetarie non convenzionali. Questa creazione di denaro da parte delle banche centrali sembrava quasi infinita – finché la pandemia non ha ulteriormente rivoluzionato la situazione.
Tutto questo denaro non è confluito nella vita reale, come l’economia della cura, quella produttiva, o l’agricoltura; non è stato usato per migliorare i nostri sistemi energetici, e così via. I soldi sono andati a finire altrove. In parte nel Dow Jones e negli stock market, e in parte sono fluiti verso usi del tutto nuovi nella criptosfera, come i NFT. La conversione delle nostre emozioni e sentimenti in NFT già si staglia all’orizzonte.
E’ molto difficile combattere la finanziarizzazione quando le politiche di tutto il mondo sono tese solo a investire in queste novità: se si smette di pedalare, la bici cade. E’ una bolla talmente grande che non c’è la volontà di farla esplodere: continuerà a espandersi finché non accadrà qualcosa, come una guerra globale.
Sfortunatamente, comincio a vedere che molti giovani – della Generazione Z- in America latina finiscono la scuola e l’università, ma non vogliono saperne nulla di lavori reali e produttivi, di creare qualcosa di fisico, o complesso da un punto di vista meccanico… Parlano piuttosto di come creare i loro NFT, o di come comprare qualche Bitcoin per guadagnare nel breve periodo. Questo significa perdere un immenso bacino di talenti, persone molto intelligenti che concentrano i loro sforzi in quella che sostanzialmente è la continuazione del processo di finanziarizzazione dell’Ecuador.
Pensa che sia sensato che i progressisti cerchino, per così dire, di cavalcare la tigre? Ci sono stati degli esperimenti nel Nord del mondo – come l’Economic Space Agency – che sembrano andare in quella direzione. A sinistra ci sono filosofi e pensatori autorevoli – per esempio Michel Feher in Belgio – i quali sostengono che la lotta non avviene più nella fabbrica Volkswagen, ma nella app Robinhood. Pensa che ci sia qualcosa di realmente progressista in questi esperimenti? O si tratta semplicemente di una distrazione, di una sorta di vendetta populista e dozzinale, che distoglie da un cambiamento strutturale?
Tre valutazioni. In primo luogo una persona di sinistra, come qualunque essere umano, può giocare al casinò e magari vincere dei soldi di quando in quando. Se si è di sinistra e si cerca di comprendere il funzionamento di questa cosa, si potrebbe essere abbastanza intelligenti da fare qualche mossa e vincere del denaro facile. Non vedo problemi nel tentativo di un singolo individuo di guadagnare.
Secondo: in quanto persone di sinistra, siamo tenuti a comprendere ciò che sta accadendo, invece di ignorarlo. E l’ignoranza della sinistra su questi temi mi preoccupa genuinamente. A sinistra si dice “oh no, non mi piacciono i Bitcoin, i NFT. La finanza, le banche… questo è male”. Ma noi dobbiamo comprendere il funzionamento interno di questo sistema. Un aspetto positivo del mondo delle criptovalute è che ha contribuito a rendere la finanza popolare, facendo sì che molte più persone rispetto al passato siano in grado di comprendere altre forme di finanziarizzazione che non riguardino strettamente il mondo delle criptovalute. E questo non mi sembra un male.
Per esempio, che ne è stato dei derivati sul petrolio, il legno, il grano, il nostro cibo? Stanno finanziarizzando l’acqua. Per cui dovremmo sfruttare questa popolarità della bolla speculativa dovuta al “mondo cripto” per comprendere meglio la finanziarizzazione del mondo convenzionale. E questo dovrebbe essere uno degli scopi principali della sinistra.
E terzo punto, ancora una volta, perché non vinciamo? Se giochiamo secondo le regole del capitale finanziario, non avremo mai modo di vincere quella battaglia. Quindi ciò che dobbiamo fare è continuare a batterci per le istituzioni di controllo che stabiliscono gli standard e le regole del gioco, che definiscono chi vince le battaglie.
Esistono degli investitori istituzionali internazionali, ma chi li regola? Dobbiamo cambiare le leggi, assumere il controllo delle banche centrali, assicurarci che che a lavorare come regolatori finanziari siano persone oneste, che non verranno “comprate” dalle banche centrali. Dobbiamo cominciare a esigere che vengano regolati i conflitti d’interesse delle persone a capo di queste istituzioni.
DALLA SOVRANITA’ MONETARIA A QUELLA DIGITALE
Qual è il collegamento fra sovranità monetaria e quella digitale, dal momento in cui sembra che la battaglia per una sia anche quella per l’altra? Cosa significherebbe in termini di politica locale per paesi come l’Ecuador, ma anche a livello internazionale? E in termini di proprietà degli stack (l’insieme delle tecnologie che servono a far funzionare un’applicazione, dai server ai software, ndr), dei dati, delle leggi antitrust? Quali sarebbero le conseguenze politiche se si considerano questi due diversi tipi di sovranità come strettamente interconnessi?
I dati finanziari, che io ho chiamato i dati del denaro, sono un tema chiave e in tutto il mondo si dovrebbe destinare ogni risorsa disponibile alla costruzione di una sovranità digitale che li regoli. L’India per esempio ha stabilito degli obblighi interni sui dati finanziari. Ha detto a Visa, la compagnia di carte di credito, che se vuole continuare a operare in India tutte le transazioni finanziarie dei cittadini indiani che pagano con delle Visa rilasciate nel Paese devono restare nell’ambito degli stack indiani. E deve esserci una forma di sorveglianza, di monitoraggio e di adesione agli standard stabiliti dal governo indiano, devono essere fisicamente nel Paese, in modo che lo staff locale possa regolarli, e in modo che possano essere raggiunti da richieste d’informazione da parte dell’autorità giudiziaria.
Naturalmente questo cambia le regole del gioco, perché d’improvviso i dati diventano una risorsa dell’economia interna di uno stato. Se usati con intelligenza, con la corretta anonimizzazione, proprietà condivisa e progettati per rispettare la privacy, potrebbero rappresentare un sistema di conoscenza a disposizione di studiosi, società civile, istituzioni governative, settore privato eccetera, da sfruttare per sviluppare più, e migliori, servizi per la società. Inoltre si eviterebbe il monopolio di tutti questi dati da parte di attori esterni all’economia locale.
Qualcosa di simile, ma senza successo, è stato sperimentato in Brasile. Ovviamente in Cina ci si è spinti ancora più in là, non solo con la localizzazione dei dati, ma con le loro applicazioni e interfacce. Se si pensa al futuro della sovranità digitale, serve concentrarsi sugli aspetti economici e politici non solo dei dati delle transazioni finanziarie, ma anche dei servizi di messaggistica e perfino delle applicazioni d’interfaccia con gli utenti. E’ qualcosa che va fatto in qualunque paese intenda conservare un minimo di decenza e dignità.
I presunti successi della Cina in questo campo sono stati molto criticati in Occidente. Potrebbero anche essere visti come una sperimentazione del tanto vituperato sistema dei crediti sociali per disconnettersi da un’economia globale dominata dagli Stati uniti. Anche le compagnie FinTech se ne sono servite per promuovere l’inclusione finanziaria, che è uno dei temi chiave del suo lavoro. Abbiamo dunque qualcosa da imparare dalla Cina?
Assolutamente sì, perché è un modello che sta funzionando – da decenni. Entrando nel WTO, il governo cinese ha fatto pressioni, con successo, affinché si ritardasse l’introduzione di carte di credito straniere nel mercato interno del Paese. Per questo la Cina ha il monopolio di Union Pay. E sono stati molto intelligenti nello stabilire gli standard, specialmente all’interno dei sistemi bancari e dei servizi commerciali.
E ora hanno il loro sistema di carte di credito, digitalmente sovrano e di proprietà dello stato. Questo modello può anche venire proiettato a livello internazionale. Perché così pochi paesi al mondo si oppongono all’uso di Visa e MasterCard come sistemi di pagamento? Come possono non esserci alternative al loro monopolio? Naturalmente ce ne possono essere, ma dobbiamo immaginarle e costruirle con intelligenza – e ovviamente i governi in questo hanno un ruolo importante. Non si possono semplicemente privatizzare i soldi, bisogna esercitare delle politiche proattive per conto dei governi in modo da istituire una sovranità digitale e finanziaria nella sfera dei pagamenti.
Lo stesso sta accadendo con provider cinesi come AliPay o WeChat, che ora si ritrovano essenzialmente sotto il controllo della banca centrale, la People’s Bank of China. In questo modo non solo i dati ma anche il loro utilizzo nel Paese vengono monitorati dal governo.
Il mio intento non è giustificare le pratiche totalitarie che possono essere esercitate dal Partito Comunista cinese. Solo mostrare che ci sono delle risposte ai monopoli globali (e principalmente a guida statunitense) se si progetta questo sistema in modo appropriato e si usano delle tecniche di anonimizzazione.
IL DENARO DIGITALE DELL’ECUADOR
Da politico, lei era entusiasta dell’uso delle tecnologie digitali per raggiungere degli obiettivi progressisti. Durante il suo mandato, ha introdotto in Ecuador il denaro digitale gestito dallo stato, ciò che oggi potremmo chiamare la Central Bank Digital Currency. Ha rappresentato un’amministrazione progressista, con un’agenda di sinistra. Può spiegarci la logica che c’è dietro l’iniziativa del denaro digitale?
Quest’avventura è iniziata nel 2009 nel pieno tumulto della crisi finanziaria globale. Ci aspettavamo un affondamento dell’economia ecuadoregna, seguita a stretto giro da una crisi nel bilancio dei pagamenti. In quanto paese “dollarizzato”, siamo dipendenti dall’afflusso di dollari – che ci vengono letteralmente spediti in aereo da un ufficio della Federal Reserve a Miami. Temevamo che, a causa della crisi, l’afflusso di dollari si sarebbe congelato, in particolare perché i guadagni dalle esportazioni stavano collassando.
Come prima cosa, abbiamo pensato che ci serviva un metodo di pagamento locale. E a causa della nostra dipendenza dalla valuta statunitense, sapevamo che liberarci del dollaro e rimpiazzarlo con una valuta nazionale non sarebbe stato possibile per motivi politici. Qual è il modo migliore per avere dei mezzi di pagamento locali senza che cresca il dollaro?
Ovviamente, l’alternativa era una valuta elettronica. All’epoca lo chiamavamo mobile money, ed era ispirato agli esperimenti del Kenya e delle Filippine. Poi abbiamo deciso che non poteva essere un programma sviluppato solo dalle compagnie di telecomunicazione e che dunque, nella sua progettazione e regolamentazione, dovesse essere parte del progetto monetario condotto dalla nostra banca centrale.
Il secondo motivo aveva a che fare con l’economia politica dello stesso sistema di pagamento. Per noi era evidente che se avessimo garantito un conto nella Banca Centrale a ogni cittadino dell’Ecuador saremmo stati in grado di spezzare molti dei monopoli locali in mano al settore bancario privato. Far sì che ogni cittadino aprisse un conto è stato, in un certo senso, un modo per modificare i rapporti fra banche private e governo.
La terza ragione riguardava i nostri sforzi politici ridisegnare la banca centrale, e trasformarla da un’istituzione elitaria a una popolare. Se d’improvviso la banca centrale avesse cominciato ad aprire conti a tutti i cittadini dell’Ecuador, che fossero urbani o rurali, ricchi o poveri, giovani o vecchi, uomini o donne – l’inclusione finanziaria per le donne è più difficile – questo avrebbe contribuito a democratizzarla. Le persone avrebbero cominciato a parlare di questa istituzione a cena, per le strade, sul bus… E anche solo che ci fosse una discussione – su ciò che la banca centrale doveva migliorare, quali regolamenti erano buoni e quali no, perfino le osservazioni più critiche su ciò che lo stato stava facendo con i soldi e i dati dei cittadini – per noi rappresentavano un enorme successo, perché quel dibattito avrebbe condotto inesorabilmente verso una nazione più democratica. Alla fine, la banca centrale sarebbe potuta uscire dall’ombra: non più l’istituzione delle élite, con la loro conoscenza esclusiva, ma quella dei normali cittadini con la loro conoscenza popolare.
* Crypto Syllabus ha come obiettivo quello di fornire le risorse intellettuali necessarie per comprendere molti dei fenomeni raggruppati sotto l’etichetta di “crypto”, dalle blockchain agli NFT, dai DAO ai CBDC. È una collaborazione tra The Syllabus e The Center for the Advancement of Infrastructural Imagination (CAII). Il progetto si trova al sito: https://the-crypto-syllabus.com/
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