È opinione comune che il testo uscito dagli Accordi di Villa Madama del 18 febbraio 1984 sia un «nuovo Concordato». È corretto dal punto di vista giuridico, dal momento che stiamo parlando di un accordo che ha portato modifiche rilevanti ai Patti Lateranensi firmati dal cardinal Gasparri e da Benito Mussolini. Non c’è dubbio però che la permanenza stessa dello strumento concordatario, sebbene con contenuti rivisti, abbia segnato un elemento di forte continuità nella storia della Repubblica – e prima ancora nel passaggio dal regime alla democrazia – alimentando polemiche intense a valle dell’istituzione dell’otto per mille (entrato in vigore nel 1990) e andate progressivamente scemando in tempi più recenti.

Con la scomparsa o il declino di alcune formazioni politiche che avevano tenuto alto lo scontro sulla laicità sembra di assistere a una stagione in cui determinati privilegi accordati alla Chiesa cattolica non incontrano più opposizioni nell’opinione pubblica.

Eppure, senza le battaglie iniziate negli anni Sessanta neppure la pur discutibile revisione del 1984 sarebbe stata possibile.
Si trattò di un processo calato dall’alto e non poteva che esserlo alla luce di quanto acquisito dall’articolo 7 della Costituzione sulla necessità di una trattativa bilaterale per procedere alle modifiche. Se fu possibile sbloccare la situazione lo si deve a una molteplicità di fattori. Già alla fine degli anni Sessanta, sull’onda dell’aggiornamento conciliare nel mondo cattolico, erano arrivate le proposte di revisione presentate da Lelio Basso poi cadute nel pantano dell’attività parlamentare.

Nella società civile i toni dello scontro erano ancora più alti dato che il riferimento del Concordato veniva utilizzato strumentalmente dalla Chiesa contro il diritto al divorzio. Cresceva intanto la contestazione dei gruppi spontanei di matrice cattolica che chiedevano l’abrogazione e lo smantellamento di tutti i privilegi ecclesiastici.
Nel 1974 la sconfitta referendaria degli antidivorzisti rilanciava la battaglia anticoncordataria assegnando un ruolo da protagonista al Partito radicale.

La riapertura delle trattative con la Santa Sede nel 1976 si spiega dunque in un processo complessivo di trasformazione che riguardava anche i vertici della Chiesa italiana, indirizzata dal segretario della Cei monsignor Bartoletti verso un vero ripensamento post-conciliare. Sarà necessario però attendere l’insediamento del primo governo Craxi nel 1983, a due anni dal primo governo non democristiano, perché il percorso giunga finalmente a termine dopo ben sei bozze di revisione.

Le novità più rilevanti presentate dal nuovo testo, detto anche il concordato Craxi-Casaroli, consistevano nella drastica riduzione del numero degli articoli, nel riconoscimento della reciproca sovranità e indipendenza della Santa Sede e dello Stato italiano (con un peloso richiamo però alla «reciproca collaborazione»); nell’abrogazione della definizione della religione cattolica come religione di Stato; e nel riconoscimento del carattere non-obbligatorio dell’ora di religione. Il nodo degli enti ecclesiastici, affrontato nell’art. 7, era rimesso in parte alle competenze di una commissione mista che avrebbe messo a punto il meccanismo dell’otto per mille, rivelatosi negli anni il frutto peggiore della revisione.

Nelle intenzioni di Craxi, del resto, c’era soprattutto la volontà di intestarsi un risultato ormai maturo.

Per certi aspetti fu dunque un tentativo di rispondere, parzialmente e con molte contraddizioni, alle istanze di trasformazione sociale. Da un altro punto di vista, fu un’opera di contenimento delle spinte modernizzatrici che venivano dalla società e dallo stesso mondo cattolico.