Così muore un supereroe, un giovedì di aprile, quando un partito di centrodestra che cerca la “terza via” ma fatica a trovarla, esprime ufficialmente il nome del proprio candidato alle elezioni presidenziali. E quel nome non è il suo.

SERGIO FERNANDO MORO non ha ancora cinquant’anni. Era il giudice a capo della Operação Lava Jato, l’enorme Mani pulite passata come un uragano sulla mappa della politica in Brasile – e in altri 11 paesi del continente americano.

Quando si mise alla guida dell’inchiesta, Moro aveva 41 anni. Quando la sua preda più grossa – l’ex presidente Lula Da Silva – venne mandata in galera, ne aveva 45. E quando il fiammeggiante protofascista Jair Bolsonaro prese il posto di Lula e gli offrì il ministero «della giustizia e della sicurezza» ne aveva 46. Le folle scandivano il suo nome, la stampa brasiliana aveva finito gli aggettivi e cedeva il passo a quella mondiale: salvatore della patria, profeta dell’onestà, esorcista della corruzione.

Sembrava la rampa di lancio per il paradiso, con il sogno di diventare presidente. Invece era l’ingresso dell’inferno.

União Brasil è un partito di destra che ha sei mesi di vita, un figlio neonato della “Riforma costituzionale n. 97” varata per ridurre il numero dei partiti attraverso soglie di sbarramento a media e finanziamenti.

LA LEGGE HA COMPORTATO frenetici processi di fusione, quindi i vecchi Democratas e Partido Social Liberal hanno seguito la tendenza, e avrebbero avuto il più grande numero di rappresentanti in tutto il parlamento se non fosse che in Brasile la carica è di fatto del partito, non del deputato, che può cambiare casacca solo durante 30 precisi giorni in ogni anno elettorale, sei mesi prima del voto. È una vera stagione migratoria.

La scadenza era il primo aprile e no, non è stata uno scherzo: União Brasil ha perso quasi metà dei suoi 81 deputati, in buona parte bolsonaristi che hanno seguito il capo e tanti saluti alla terza via. E quel che è peggio, ha guadagnato un militante scomodissimo: Sergio Moro.

IL SUPERGIUDICE ha infatti abbandonato Podemos, il partito della famiglia Abreu – letteralmente: manda in parlamento padri, madri, figli e figlie, più qualche faccia nota (ci giocava – è il caso di dirlo – anche il senatore Romario, già centravanti della nazionale brasiliana campione del mondo nel ’94). Niente a che vedere con l’omonima formazione di sinistra spagnola: il nome viene dal celebre Yes We Can di Barack Obama, le posizioni sono di centrodestra.

Moro era il candidato presidente di Podemos. Ci era entrato apposta per questo, lui e la moglie Rosangela Wolff, forse per rispettare la linea familistica del partito. E si era portato dietro anche il consulente di fiducia, la società dell’amico avvocato Luis Felipe Cunha, che doveva elaborare il programma di governo della nuova destra – in questo senso il nome della società è fantastico: si chiama “Bella Ciao”. Il compenso pattuito era di 60mila reais al mese (circa 12mila euro) per tutto il tempo necessario. Li hanno presi per due mesi.

Poi Sergio Moro e signora hanno cambiato partito, nell’ultimo giorno utile, lasciando lo squattrinato Podemos per la grande ma ferita União Brasil. I cui capi hanno cominciato a urlare.

E chi è questo, che vuole entrare direttamente come numero uno? In coda, prendesse il numeretto. Tra minacce e lamentele, in questo giovedì di aprile (ieri) i superstiti di União Brasil hanno candidato il presidente del partito, Luciano Bivar, piantando l’ultimo chiodo sulla bara del “presidente Moro”.
Se Podemos non può, União Brasil non vuole.

 

Sergio Moro a San Paolo durante un dibattito (foto Agif/via Ap)

 

MORO SI È DETTO STUPITO ma ha dichiarato di essere «un soldato del partito» – in cui milita da ben due settimane – e ha fatto sapere che si accontenterà di un posto da senatore per lo stato di São Paulo, al limite anche deputato. Il fatto è che il suo nome non è più una scintillante calamita elettorale. In tre anni, il cacciatore di corrotti è riuscito nell’impresa di dilapidare un consenso enorme, fino a ritrovarsi nel peggiore incubo di ogni predatore: diventare la preda. Quel seggio gli serve, ma non c’entra la politica. C’entra l’immunità.

Da quando ha accettato il posto di superministro di Bolsonaro, nel novembre 2018, Moro non ne ha più azzeccata una. Mentre il suo capo mostrava il peggio di sé, nel giugno 2019 uno scoop della testata online The Intercept lo demoliva come giudice, rivelando migliaia di messaggi su Telegram con cui Moro teleguidava i pm che indagavano su Lava Jato – a partire dal loro capo, il messianico Deltan Dallagnol – per demonizzare in ogni modo possibile l’ex presidente Lula, ingigantendo a ogni costo accuse modeste pur di mantenere il processo a Curitiba, la sede del supergiudice.

NEL MARZO DEL 2020 altro scoop di The Intercept: tutti i messaggi che rivelavano l’ingresso, nel paese e nelle indagini, di squadre intere del Dipartimento di giustizia degli Stati uniti, interessati a trattare sugli enormi risarcimenti della multinazionale Odebrecht, la centrale delle tangenti – il tutto di nascosto dal governo brasiliano guidato da Dilma Rousseff, la vice di Lula.
Sarebbero reati, ma Moro è ancora Moro.

Poi nell’aprile del 2021 la Corte suprema annulla le condanne contro Lula per la conclamata parzialità del giudice Moro, l’ex presidente viene scarcerato e proclamato rieleggibile, il pm teleguidato Dallagnol dovrà versargli 100mila reais di danni.

È LA MAZZATA FINALE, meno di dieci giorni dopo Moro si dimette da ministro accusando Bolsonaro di volergli far bloccare le indagini per malversazione sul figlio Flavio. E trova presto un ingaggio da 3,5 milioni di reais nello studio legale americano Alvarez & Marsal – il cui miglior cliente… è il tangentiere-capo Odebrecht. Sui suoi onorari viene aperta un’indagine contabile, mentre lui si iscrive a Podemos per farsi candidare alla presidenza («Non entrerò mai in politica», aveva detto all’Estado de São Paulo pochi mesi prima), Poi cambia partito rinunciando alla presidenza, poi rinuncia alla rinuncia e fa infuriare anche il nuovo partito… E siamo a ieri.

UNA STORIA di portentoso opportunismo politico e di uso campale della giustizia, una visione del mondo in cui lo stato è il problema e fonte di ogni corruzione mentre il mercato è la soluzione e fonte di ogni bene, una cronica incapacità di attrarre consensi persino tra i potenti della “terza via”.

Come candidato presidente non è mai stato a meno di venti punti dal favorito Lula, se qualcosa va storto nel suo seggio a São Paulo potrebbe finire male. Così muoiono i supereroi, un giovedì di aprile.