«Così i ghiacciai si sono dimezzati»
Intervista Per il professor Marco Giardino, segretario del Comitato Glaciologico Italiano, il problema è la velocità dello scioglimento
Intervista Per il professor Marco Giardino, segretario del Comitato Glaciologico Italiano, il problema è la velocità dello scioglimento
L’essere la sentinella del cambiamento climatico investe i ghiacciai di un ruolo fondamentale nella comprensione dello stato di salute del pianeta. Ci svelano rischi e scenari futuri e ci possono aiutare a prendere le misure per evitare effetti devastanti sugli ecosistemi. Marco Giardino, docente di geografia fisica e geomorfologia all’Università di Torino, nonché segretario del Comitato Glaciologico Italiano, l’organismo più autorevole in materia, è uno degli scienziati al seguito della Carovana dei ghiacciai in viaggio sulle nostre Alpi.
Professor Giardino, qual è il contributo del Comitato Glaciologico Italiano alla Carovana, promossa da Legambiente?
Mettiamo a disposizione metodologie di studio per avvicinarsi all’ambiente glaciale e misurare gli effetti del cambiamento climatico. E tutto ciò lo dimostriamo sul campo, nelle varie tappe della Carovana. Poi, condividiamo un patrimonio scientifico che il Comitato, fondato nel 1895, sin dal 1914 aggiorna annualmente stilando un resoconto sullo stato dei ghiacciai italiani. Un archivio fra i più ricchi al mondo che testimonia un trend duraturo di riduzione glaciale. Ora, è utile divulgarlo alla popolazione, anche per dare riconoscimento e nuovo sostegno al prezioso lavoro su base volontaria degli operatori glaciologici.
Qual è complessivamente lo stato dei ghiacciai alpini? Quanto si sono accelerati in questi ultimi anni i cambiamenti dovuti all’innalzamento delle temperature?
Vivono uno stato di netta riduzione rispetto alla massima espansione storica registrata a metà Ottocento, con una rapida accelerazione della contrazione negli ultimi decenni. Misurando l’arretramento delle fronti del ghiacciaio tracciamo il cambiamento climatico dell’ultimo secolo. Che non è lineare. Ci sono state pulsazioni positive negli anni Venti e Settanta del Novecento prima del più recente rapido collasso dei ghiacciai. L’aumento della velocità del cambiamento è la nostra preoccupazione. Se i ghiacciai delle Alpi occidentali intorno al 1850 si estendevano per 390 chilometri quadrati, una superficie poco più grande del Lago di Garda, oggi si sono praticamente dimezzati. La velocità della riduzione è aumentata in modo esponenziale negli ultimi dieci anni. Il ghiacciaio del Gran Paradiso ha avuto nell’ultimo anno un regresso di oltre 300 metri della fronte e questo significa un vero e proprio collasso.
Avete presentato i primi risultati sul Miage e sui ghiacciai del Monte Rosa. Cosa dicono?
La superficie del ghiacciaio del Miage che scende dal Monte Bianco, dagli anni Novanta a oggi, è sprofondata di circa trenta metri nel suo settore frontale. Quasi un metro l’anno. Rispetto all’inizio del secolo scorso, la copertura detritica ne ha cambiato le caratteristiche della superficie, facendolo classificare da ghiacciaio bianco a nero. La mancanza di sostegno della massa glaciale ha causato l’abbassamento della morena laterale destra, in alcuni punti, di oltre sei metri. Le misure effettuate sul Miage durante la prima tappa della Carovana dei Ghiacciai sono particolarmente importanti perché trasformano la percezione del cambiamento di questo ghiacciaio in dati concreti e misurati, una condizione indispensabile per intervenire in modo efficace nella mitigazione dei rischi. Ma ogni ghiacciaio si comporta in modo diverso; per quanto riguarda il ghiacciaio di Indren sul Monte Rosa non abbiamo, per esempio, potuto effettuare la misura della fronte perché coperta di neve e questo significa che il ghiacciaio ha cambiato il suo comportamento. Normalmente la neve si conserva soprattutto nella parte superiore del ghiacciaio, ora le valanghe ne percorrono tutta la superficie facendo diventare più consistente l’accumulo frontale, e nel contempo la temperatura elevata accelera la fusione a monte. I nostri operatori ci hanno segnalato, inoltre, che sul ghiacciaio i crepacci sono disposti in modo sempre più caotico, non solo longitudinali o traversali, ma anche curvi, e questo significa che la massa è priva di tensione e sta collassando.
Come avviene in sintesi il monitoraggio di un ghiacciaio?
Ne abbiamo due tipologie. Sin dal 1914 il monitoraggio annuale della fronte del ghiacciaio avviene dal confronto tra un segnale posto dagli operatori del Comitato Glaciologico e la posizione effettiva del ghiacciaio, con strumenti semplici come rotelle metriche, distanziometri, teodolite, Gps. Un altro tipo di misurazione più tecnologica avviene attraverso laser scanner, per ricostruire modelli tridimensionali della fronte glaciale e interpretarne gli spostamenti con precisione centimetrica. Sul sito web del Comitato sono liberamente accessibili e scaricabili i dati delle campagne glaciologiche annuali, che contribuiscono ad aggiornare il World Glacier Inventory promosso dall’Unesco.
Quali sono gli interventi di mitigazione possibili per ridurre gli effetti del surriscaldamento sui ghiacciai?
Come scienziati definiamo lo stato dell’ambiente e possiamo suggerire misure di adattamento, ma la mitigazione dipende dal sistema economico e politico e da come questo sviluppa tecnologie e interventi. Noi, però, possiamo quantificare le risorse di un ghiacciaio, come l’acqua messa a disposizione, e delinearne gli scenari di utilizzo tramite proiezioni; in questo modo possiamo contribuire a formulare politiche di adattamento, per l’uso della risorsa idrica come per il turismo ad alta quota. Uno studio dell’Arpa Valle d’Aosta sul Lys (un bacino glaciale del Monte Rosa), stima che circa il 60% del deflusso totale annuale derivi dalla fusione nivale, fino al 20% dalla fusione glaciale e che il resto sia generato dalle precipitazioni estive. Con misure precise e diffuse sui bacini glaciali si potrebbe pianificare meglio l’uso idrico delle diverse valli alpine.
Come docente dell’Università di Torino, partecipa al progetto Ue ArcticHubs per la sostenibilità dell’Artico, rappresentando i casi di studio sulla geodiversità alpina e sui servizi alle comunità locali. Quale relazione esiste tra lo stato delle Alpi e quello dell’Artico?
Le due situazioni sono legate sia dalla fragilità dell’ambiente di fronte alle pressioni antropiche e al cambiamento climatico, sia dalla necessità di mitigare i conflitti che ne possono derivare. Diciassette istituzioni provenienti dai territori artici hanno considerato utile il confronto con una regione alpina, in particolare quella del Monte Rosa, in cui la popolazione da lungo tempo ha maturato un atteggiamento attento e consapevole rispetto ai cambiamenti climatici. Dopo una precisa analisi delle componenti ambientali e delle possibili trasformazioni nell’uso del territorio, nelle Alpi come in Artico, è necessario dare vita a un sistema pubblico partecipato in cui la popolazione, le imprese e le istituzioni diventino attori della mitigazione. Proprio durante la Carovana dei Ghiacciai promossa da Legambiente abbiamo verificato sul territorio alpino che il dialogo fra le parti è vivo e favorisce il raggiungimento degli obiettivi del progetto ArcticHubs.
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