La Ue è stata spesso considerata un progetto pacifista, in quanto organismo che surclassando i nazionalismi si sarebbe lasciato alle spalle la pesante eredità novecentesca per approdare ad un eden di cooperazione e tecnocrazia. Tale visione resta sulla superficie dei comportamenti posti in essere dagli attori politici, infatti resta monca di quello che una qualificata tradizione intellettuale considera il fondamento delle politiche militari: gli interessi economici. In tal senso si può capire tanto un elemento abbastanza noto, e cioè il collegamento assai forte con la Nato, vale a dire con la politica militare Usa. La stupefacente subordinazione attuale dei Paesi comunitari alla linea statunitense in relazione alla guerra in Ucraina, senza un’ombra di autonomia strategica, non si spiega se non in base a caratteristiche strutturali difficilmente riconducibili alla mera incompetenza, miopia e ottusità della oligarchia comunitaria.

Assai meno noto è il fatto che già la Ue – coerentemente col fatto di avere oltre che robusti collegamenti col capitalismo statunitense propri obiettivi economico-strategici – ha una sua politica di difesa (come eufemisticamente si usa dire) già sviluppata, che da anni cerca di creare un sistema militare-industriale continentale. Come per altri settori sul piano finanziario si vede la consueta partita di giro dell’organismo comunitario: gli Stati membri finanziano la Ue i cui fondi tornano ad essi; in alcuni settori in forma vincolata o rivolta a gli enti locali, in ambito della difesa direttamente alle aziende militari strettamente legate ai governi.

I fondi comunitari hanno nomi piuttosto sconosciuti: Padr (Preparatory Action on Defence Research), Edidp (European Defence Industrial Development Programme), Pesco (Permanent Structured Cooperation) e Edf (European Defence Fund, il Fondo europeo per la difesa) e da marzo 2021 EPF (European Peace Facility). Consideriamo questi ultimi due: Edf ha un bilancio senza precedenti di 8 mld €, pari a 13,6 volte quello dei due programmi precursori. L’obiettivo è stato finora di investire in nuovi tipi di armamenti con tecnologie all’avanguardia, del tipo di quel che gli analisti chiamano la terza evoluzione della corsa agli armamenti.

Il fondo Epf – finanziato da tutti i paesi membri salvo la Danimarca – sarebbe deputato a “prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale”, invece nella più classica torsione orwelliana invia equipaggiamenti e armi letali all’Ucraina, con uno stanziamento deciso a fine febbraio scorso ed il raddoppio dei fondi a marzo.

Se vediamo i soggetti del processo, un recente rapporto del Transnational Institute ci mostra come i fondi Padr e Edidp abbiano riversato circa 600 milioni € in un numero assai ridotto di produttori di armi, legati ai più grandi Stati comunitari: Francia, Germania, Italia, Spagna, permettendo loro di produrre ed esportare tecnologie belliche e sistemi d’arma. Sebbene controllate dai rispettivi governi tali aziende (l’italiana Leonardo, la francese Thales, la spagnola Indras, la tedesca Hensoldt e il consorzio Airbus) non sono di esclusiva proprietà pubblica.

Come mostra una recente inchiesta del consorzio investigativo Investigate Europe esse hanno quote di azionariato in mano ai peggiori colossi speculativi del pianeta: Capital Group, BlackRock, Vanguard, Wellington Management, Fidelity Investments, che al tempo stesso sono azionisti dei maggiori competitor d’oltreoceano: Northrop Grumman, Raytheon, Lockheed Martin, General Dynamics, Boeing. Si tratta di quote non di controllo, ma abbastanza ampie da configurare consistenti interessi di profitto.

Tali fondi, possedendo quote di aziende tanto Usa quanto europee faranno profitti in ogni caso dalla accelerata del processo di riamo innestato dalla invasione dell’Ucraina. E non vi è dubbio di chi ci guadagni da una temperie di isterico clima da guerra fredda di ritorno, facendo balenare una “guerra di civiltà” mentre pazientemente dietro le quinte si attendono le ambite plusvalenze da profitti di guerra.