«Così cerco i rifiuti negli abissi del mare»
Festival CinemAmbiente di Torino Intervista a Igor D’India, filmmaker palermitano, che ha realizzato il film «Abyss Clean Up»
Festival CinemAmbiente di Torino Intervista a Igor D’India, filmmaker palermitano, che ha realizzato il film «Abyss Clean Up»
Una valle stretta e profonda, dove confluiscono innumerevoli canyon sottomarini. È lo Stretto di Messina, un luogo meraviglioso messo in pericolo dal devastante impatto antropico, dal traffico navale e dagli svariati rifiuti sversati da terra. Rifiuti che nelle acque blu sprofondano e scompaiono alla vista. Munnezza, tanta, troppa. Automobili, lavatrici, bambolotti. Andando alla ricerca di queste discariche invisibili, Igor D’India, filmmaker palermitano, ha costruito il film Abyss Clean Up, che sarà presentato in anteprima al festival CinemAmbiente di Torino (sabato 8 giugno, ore 19.30, al Cinema Massimo – Sala Soldati) nella sezione «Made in Italy».
TUTTO PARTE DA UNO STUDIO del 2016 di Cnr e Università La Sapienza di Roma a proposito del ritrovamento di una enorme discarica sottomarina nelle profondità dello Stretto di Messina, individuata grazie all’aiuto di un robot filoguidato (Rov). «Ne avevo letto – racconta D’India, che è un videomaker e documentarista specializzato in outdoor e avventura – dopo aver terminato la serie-tv Raftmakers, che avevo realizzato percorrendo su zattere di fortuna dieci fiumi del mondo dal Laos al Belize, documentando il rapporto uomo-fiume oggi o, meglio, quel che ne rimane. Bottiglie di plastica e spazzatura si trovano negli angoli più remoti del pianeta. Questo fenomeno, dovuto alla non gestione dei rifiuti a terra, si espande nella profondità degli abissi».
PIÙ DEL 90% DEI RIFIUTI CHE FINISCE in mare affonda. «A Roma – spiega – ho incontrato il professor Francesco Chiocci della Sapienza e la ricercatrice Martina Pierdomenico del Cnr. Mi si è aperto un mondo. Lo Stretto non è un caso isolato, situazioni simili succedono laddove ci sono fiumi antistanti canyon marini, vicini a zone antropizzate. Da Gibilterra a Nizza, dalla Corea all’Africa. Ho detto agli scienziati che se mi avessero aiutato nella divulgazione e nell’informazione del tema, avrei provato a mettere in piedi una spedizione per riportarli lì, sullo Stretto di Messina, e per cercare insieme rifiuti e nuove soluzioni al problema. Non sapevo che sarebbe stata un’impresa. Servivano tanti soldi, un team tecnico, un’imbarcazione adeguata e parecchio tempo. Fortunatamente, abbiamo ricevuto il sostegno della Sicilia Film Commission e Sea Shepherd Italia, in Sicilia per un’operazione di ghostnet (recupero di reti da pesca fantasma, ndr), ci ha messo a disposizione l’imbarcazione». Obiettivo, scovare rifiuti a 600 metri di profondità.
I RIFIUTI RITROVATI IN FONDO AL MARE sono spesso solo la punta dell’iceberg, perché quelli più vecchi sono ormai parte del substrato e attorno a loro capita che si ricreino ecosistemi marini. Come nell’incredibile caso – raccontato nel film – delle auto affondante a Varazze, a 30 chilometri da Genova. Qui, al largo, nel 1970 furono scaricate in mare 1.500 auto (prima bonificate dalla Fiat) distrutte da un’alluvione che devastò il capoluogo ligure. Si pensava di ripopolare di pesce una zona dal fondale fangoso e poco pescoso. Quello che vediamo oggi sul fondale è, però, agghiacciante, ma difficilmente rimovibile proprio per non intaccare l’ecosistema creatosi nei decenni. Nel Mar Ligure vivono anche molti cetacei e balene «che rappresentano “il bello da salvare”, ciò per cui vale la pena lottare ogni giorno», sostiene il filmmaker palermitano.
IL PROGETTO DI ABYSS CLEAN UP, che nel frattempo si è pure strutturato come associazione, è iniziato nel 2019: le riprese del documentario sono partite nel 2020 ma il Covid ha rallentato il tutto. Alla fine di giugno 2023, gli scienziati del Cnr con Martina Pierdomenico hanno aiutato il regista nella sua missione: un’esplorazione sottomarina a 600 metri nello Stretto di Messina, che partisse da una solida base scientifica. «Non potevo andare a cercare immondizia alla cieca non ci sarei riuscito. Il lavoro di squadra è stato un arricchimento per tutti», spiega Igor D’India.
LE DISCARICHE MARINE NON SONO tutte uguali «ma qualunque oggetto che hai avuto nella vita una volta in mano lo ritrovi in mare, mare che dobbiamo difendere da noi stessi, da una civiltà autodistruttiva».
IL FILM NASCE PER SENSIBILIZZARE il pubblico sull’inquinamento dei fondali marini e le possibili tecniche-strategie per combatterlo. Ci sono i rimedi? «Entro i 40 metri possiamo più facilmente intervenire, ma se parliamo di grandi profondità ora non ci sono rimedi per recuperare i rifiuti. Pulire non dà profitto ed è un’operazione costosa. Se la tecnologia esiste, è in mano a chi fa altro ovvero infrastrutture marine, sia per il gas o internet. Se riuscissimo un giorno a intervenire in modo capillare, si dovrà valutare di non fare ulteriori danni e calcolare l’impatto di emissioni di Co2 delle navi impiegate. L’importante è gestire i rifiuti a terra, perché quello che buttiamo in acqua ci torna indietro come distruzione dell’ambiente, della salute e degli alimenti. Bisogna formare le nuove generazioni sull’importanza e il rispetto dei fondali marini, spiegando come davvero siamo tutti connessi».
LA LINEA NARRATIVA E IL TAGLIO registico avventuroso del documentario vogliono coinvolgere un pubblico giovane e giovanissimo. Per Igor D’India, i concetti di esplorazione e avventura sono fondamentali: «Sono affascinanti e vi ho fondato tutta la vita, talmente ero catturato dalle imprese di Messner e di Bonatti. Del mare, la coperta blu, si sa pochissimo, avventurarsi in questo ambiente dove a volte sei il primo è indescrivibile». Ma esiste una luce alla fine del tunnel? «Da siciliano, nato nel 1984 e cresciuto nella Palermo delle stragi di mafia, del maxiprocesso, dell’omicidio di Falcone e Borsellino, se non credessi nella luce fuori dal tunnel sarei finito. D’altronde era lo stesso Falcone a dire che la mafia aveva come tutti i fenomeni un inizio e una fine. E, allora, perché non dovrebbe finire questa tendenza all’inquinamento forsennato? Abbiamo l’obbligo di crederci».
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