Il 30 marzo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), nel caso J.A. e altri c. Italia (ricorso n. 21329/18), ha condannato all’unanimità l’Italia per la detenzione de facto dei migranti nell’hotspot di Lampedusa e per l’illegittimità del respingimento collettivo verso la Tunisia a cui erano stati sottoposti i ricorrenti nell’ottobre del 2017. La Corte ha ritenuto che vi sia stata una violazione di due articoli della Convenzione Europea dei Diritti Umani, il 3, divieto di trattamenti inumani o degradanti, il 5 par. 1, 2 e 4, diritto alla libertà e alla sicurezza, e dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) allegato alla Convenzione.

La violazione dell’art. 3 dipende da condizioni sulla carta contingenti del centro di Lampedusa: ogni volta, vale a dire quasi sempre dalla Primavera all’Autunno, che si verifica una situazione di sovraffollamento le condizioni di vita delle persone che vi si trovano scendono sotto la soglia del rispetto della dignità umana. Più strutturale è la violazione del divieto di espulsione collettiva degli stranieri (art. 4 del Protocollo n. 4): è infatti conclamata la tendenza delle autorità italiane di effettuare espulsioni e respingimenti senza consentire agli stranieri di fare domanda di asilo.

Per questo la Corte EDU ci ha già condannato nel famoso caso Hirsi Jamaa nel 2012. Più di recente l’attuazione di questa prassi, alla frontiera Est del nostro Paese, ha costituito l’oggetto dell’ordinanza del Tribunale di Roma 56420/2020, poi rivista in sede di appello solo per questioni procedurali relative al regime delle prove. In questo caso il respingimento collettivo, senza consentire loro di fare domanda di protezione internazionale, è più allarmante perché si iscrive nell’ambito degli accordi di cooperazione stipulati tra Italia e Tunisia concernenti la “riammissione dei migranti irregolari”.

Ma la parte della condanna che ha un effetto dirompente è quella relativa alla violazione dell’art. 5 della Convenzione. Come era accaduto nel precedente caso Khlaifia (ricorso n. 16483/12), la Corte ha nuovamente dichiarato illegittime le modalità di limitazione della libertà personale dei migranti nel centro di Lampedusa. La questione, come avevamo sostenuto nell’Intervento di Terza Parte presentato da L’altro diritto ODV (richiamato al par. 78 della decisione), riguarda in generale l’illegittimità del trattenimento presso gli hotspot prevista dall’art. 10 ter del D.lgs. 286/1998, che sopravvive alla sua patente incostituzionalità per la difficoltà di sollevare la questione della sua legittimità alla Corte Costituzionale.

La Corte Edu, riconoscendo la violazione dell’art. 5, spazza via in primo luogo l’ambiguità del termine “trattenimento” usata dal legislatore italiano. La Corte infatti riconosce che l’hotspot in cui erano alloggiati i quattro ricorrenti «era circondato da sbarre, catenacci e barriere» e che essi «non erano autorizzati a uscire».

Una volta che il trattenimento in un hotspot, è come una detenzione de facto tutte le caratteristiche della sua illegittimità sono una ovvia conseguenza. Infatti, la Corte rileva che la limitazione della libertà personale non era stata disposta con un provvedimento motivato reclamabile davanti a un giudice.

Anche il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (CPT) nel rapporto annuale 2022 ha chiesto ai governi europei di porre fine ai respingimenti ai confini terrestri o marittimi, in particolar modo ai confini dell’Unione Europea.

Concludiamo riportando l’auspicio contenuto nel comunicato della Corte EDU relativo alla decisione: «Sarebbe bene che il legislatore verifichi la natura degli hotspot, nonché i diritti materiali e procedurali delle persone che vi si trovano». Anzi, diremmo che il legislatore ha il preciso dovere costituzionale di fare una tale verifica.