Corpi (offesi)
In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss
Di Giulio Regeni abbiamo visto il volto sorridente, lo sguardo vivace, le carezze al suo gattino. Ma abbiamo subìto la descrizione delle torture che gli sono state inflitte, fino alla morte e allo strazio del suo corpo. Le fotografie del corpo di Stefano Cucchi invece ci hanno parlato in modo crudo e immediato della violenza agita contro di lui. Ancora diverso il senso e l’effetto del piccolo corpo di Aylan: intatto con scarpe e vestiti sembrava addormentato in riva al mare.
Credo che queste immagini mi abbiano (ci abbiano) colpito anche perché per una serie di pensieri e sentimenti messi in moto dallo sguardo, ma suscitati anche da altre esperienze vissute, ci hanno fatto sentire questi corpi estremamente vicini. Li abbiamo avvertiti come nostri possibili figli, fratelli, nipoti, amici intimi. Riconoscendoli nella loro individualità, nei pezzi di vita reale che la loro tragedia ci ha fatto conoscere, spesso attraverso le parole di chi li ha amati, li ama, e ne coltiva la memoria.
Si dice, non senza qualche verità, che la civiltà dell’immagine in tempo reale nella quale siamo immersi costituisce un mondo virtuale, nel quale tutto si riduce facilmente a effimera apparenza.
Molto tempo fa mi capitò di citare contro questa interpretazione del nostro tempo mediatizzato una osservazione di Jean-Luc Nancy: “Ciò che viene non è affatto quel che sostengono i deboli discorsi sulla finzione e sullo spettacolo ( un mondo di apparenze, di simulacri, di fantasmi, privi di carne e di presenza) (…) viene ciò che ci mostrano le immagini. I nostri miliardi di immagini ci mostrano miliardi di corpi, come mai furono mostrati”.
Parole scritte nei primi anni ’90, che oggi sembrano quasi una profezia rispetto alla realtà che stiamo vivendo: le moltitudini di uomini, donne, bambini che scappano dalla guerra e dalla violenza e cercano riparo nei nostri pacifici e ricchi paesi. Ma questo esodo collettivo è fatto di corpi che vengono percepiti da noi per lo più come masse certamente reali, ma indistinte, e più o meno minacciose.
Quando la vittima di una violenza insopportabile, atrocemente ingiusta, è uno di noi», uno che potrebbe essere nostro figlio o fratello, scatta l’identificazione. Può anche accadere che si pensi con un po’ di consapevolezza maggiore al fatto che la sorte toccata a Giulio Regeni è il destino di tante altre persone come lui, in Egitto e altrove nel mondo. Così come l’arbitrio subito da Stefano Cucchi parla di soprusi che si ripetono, anche nei nostri paesi ricchi e pacifici. E la vita subito persa dal piccolo Aylan, tanto velocemente dimenticata, riemerge per suscitare giustificati complessi di colpa per tutto quello che non riusciamo o non vogliamo fare per soccorrere, prestare cura a chi fugge dalla violenza.
Se esistesse una politica capace di occuparsi della vita della città, e quindi di coltivare i sentimenti necessari per migliorarla, per agire e cambiare le cose, dovrebbe forse concentrarsi su questi frammenti di emozione e di empatia che suscitano in noi le immagini dei singoli corpi offesi. Fissarle in un qualche dispositivo simbolico capace di non dissolversi nel flusso delle informazioni che ci raggiunge quotidianamente.
Farne la leva per una reazione, un pensiero e un’azione efficaci.
Chiedersi, per esempio, come restare vicini a quei giovani che al Cairo manifestano solidarietà per il sacrificio di Giulio. Trovare il modo, così come per un momento abbiamo sentito «nostro» il corpo di un ragazzo ucciso, di sentire nostri i corpi vivi, in pericolo, di quanti condividono la sua voglia di libertà.
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