Non c’è più nessuno che si sogni di negare la perdita del potere di acquisto dei salari in atto in Italia. E con le imminenti elezioni politiche gli schieramenti sono alla ricerca di soluzioni per affrontare il problema.

Mancano tuttavia proposte di intervento credibili che richiamino i motivi alla base di questo drammatico calo. E per quel che riguarda le proposte specifiche si avverte un’aria di già visto.

Ma perché in Italia le retribuzioni sono basse? Le cause vanno ricercate nella composizione della occupazione e nelle caratteristiche strutturali del mercato del lavoro aggravatesi negli ultimi decenni.

Le retribuzioni sono basse, in primo luogo, perché da anni la gran parte dell’occupazione viene creata in settori a bassa produttività, poco qualificati e strutturalmente esposti a un problema di concorrenza.

La stagnazione delle retribuzioni a partire dagli anni Novanta, a fronte della crescita media europea del 30%, è in altri termini l’effetto diretto di una struttura della domanda di lavoro in cui è cresciuta l’occupazione, ma al prezzo di uno schiacciamento drammatico delle retribuzioni, dovute al forte aumento del lavoro a termine, raddoppiato dall’inizio degli anni Novanta, al basso numero di ore lavorate, paghe orarie spesso misere e un livello senza in eguali in Europa del part-time involontario femminile (il 61,2% contro una media del 21,6%).

Ed è questa destrutturazione del mercato del lavoro che determina la persistenza e l’aggravamento dei bassi salari anche in settori ad elevata produttività ma basse garanzie (pensiamo alla logistica ma non solo).

Ma non solo fattori strutturali vanno tenuti in considerazione. Per comprendere i cambiamenti del mercato lavoro e gli effetti, in negativo, sui lavoratori, in particolare quelli più giovani, vanno considerate anche le cattive riforme del mercato del lavoro, non solo quelle che hanno introdotto flessibilità senza garanzie, ma anche quelle, più recenti, che hanno puntato all’incentivazione delle assunzioni con i tagli al cuneo fiscale senza alcun vincolo di politica industriale e stabilità occupazionale.

Basti pensare alla decontribuzione per i contratti «a tutele crescenti», introdotta nel 2015 a complemento del Jobs Act: uno sgravio fiscale costato 18 miliardi di euro in tre anni che avrebbe dovuto favorire l’occupazione giovanile soprattutto nel Mezzogiorno e che è andato in tutt’altra direzione (favorendo magari aziende che avrebbero proceduto ad assunzioni anche senza gli sgravi).

In compenso si sono moltiplicati i contratti a termine, di breve e brevissima durata, che oggi sono uno dei problemi che pesano di più sulle basse retribuzioni, soprattutto dei giovani.

L’introduzione del salario minimo è il minimo che si possa fare per frenare la corsa al ribasso dei salari nei settori non coperti dalla contrattazione.

Ma la risposta alla questione salariale non può fermarsi qui. Il problema non è infatti solo quello di evitare che i salari scendano su livelli troppo bassi ma anche che si inverta una rotta dopo anni di svalutazione del lavoro. Qui c’è un convitato di pietra che non viene citato ma che nelle condizioni attuali diventa ineludibile ed è il ripristino di meccanismi di indicizzazione automatica dei salari al costo della vita.

In altri termini, la scala mobile, superata con gli accordi dei primi anni Novanta, in una fase tuttavia completamente diversa da quella in cui siamo entrati con la pandemia e soprattutto con le tensioni internazionali che hanno portato alla crescita dell’inflazione.

Ammesso che la fiammata inflattiva sia un fenomeno destinato a durare, non è certo con la moderazione salariale che si può pensare di rispondere al problema della perdita di potere d’acquisto dei salari.

Limiti per legge al prezzo dell’energia, se e quando ci si arriverà, o tagli al costo di alcuni servizi collettivi, come i trasporti, possono alleviare l’emergenza, ma non risolvere il problema alla radice. E il problema si risolve se si tornano ad agganciare i salari al costo della vita.

D’altra parte, è bene ricordare che laddove presente il salario minimo legale è già oggi agganciato a meccanismi di indicizzazione automatica dei salari.

In Francia, quest’anno il salario minimo è già stato aumentato due volte. A Gennaio 2022 era stato portato a 10,57 euro orari (+0,9%). A maggio è arrivato a 10,85 euro su 35 ore settimanali. Se e quanto il salario minimo è un fattore di spinta o arretramento della contrattazione, come teme chi si oppone al salario minimo legale, dipende dalla forza organizzazioni collettive, più che dalla legge.

Qualunque sarà il governo ci sarà bisogno nei prossimi mesi di una forte spinta della contrattazione collettiva. I lavoratori italiani hanno bisogno di difendere il potere d’acquisto dei loro salari.

Per questo, occorre tornare a considerare senza tabù la reintroduzione di meccanismi di indicizzazione dei salari, anche agevolati dalla leva fiscale.