Consapevolezze immerse in un bagno caldo
Immaginari La cultura giapponese tra arte e disciplina, come racconta «Yudo», il film diretto da Masayuki Suzuki. Un documentario nato da un’idea di Kundo Koyama, scrittore e autore di programmi televisivi e radiofonici
Immaginari La cultura giapponese tra arte e disciplina, come racconta «Yudo», il film diretto da Masayuki Suzuki. Un documentario nato da un’idea di Kundo Koyama, scrittore e autore di programmi televisivi e radiofonici
La «Via», scritta con il carattere di Do, leggibile anche come Tao, in Giappone indica insieme arte e disciplina. Si potrebbe dire che la cultura giapponese si esprima e si tramandi attraverso Vie, molte delle quali note e diffuse nel mondo, come il Budo, la Via marziale, il Chado o Sado, la Via del tè, il Kado la Via dei fiori; lo Shodo la Via della calligrafia; il Kodo la Via dell’incenso. Tutte hanno in comune un fondamento filosofico che è il pensiero buddhista Zen, per cui queste espressioni artistiche sono intese come discipline a supporto dell’attività meditativa per raggiungere uno stato spirituale pienamente consapevole e distaccato dall’effimera realtà del mondo, e in questo senso eseguite come esercizio quotidiano e costante, ripetitivo, seguendo etichette e riti canonizzati che nel tempo le hanno fatte evolvere in veri riti, ben oltre il semplice scopo di intrattenersi. Certo, all’inizio anche quella che oggi conosciamo come cerimonia del tè consisteva in incontri informali di persone che sorseggiando il tè e gustando piccole pietanze scambiavano poesie, pensieri e godevano della bellezza di ceramiche, utensili in bambù, carta, di colori e atmosfere create con il senso di accoglienza che si deve a un ospite. Solo nel tempo, sotto la direzione di maestri del tè come Sen no Rikyu (XVI secol) gli incontri intorno alla tazza di tè si sono evoluti in forme più sofisticate, in cui gestualità e qualità artistica espressa nella manifattura di oggetti, nella lavorazione di materiali e nella creazione di spazi sobri, poveri e non finiti hanno trovato una canonizzazione segnando un tempo sospeso di comunione tra i partecipanti anche in tempi di guerre civili.
Il progetto in realtà è del 2015, perché avevo pensato che esistendo una «via del tè», poteva esistere anche una «via dell’acqua», una «via dello yudo». (Kundo Koyama)
PROPRIO dalla consapevolezza di questa tradizione radicata soprattutto nell’area di Kyoto, è nata l’idea di riconoscere anche all’usanza dell’immersione nel bagno caldo quotidiano il diritto a essere riconosciuta come rito, come Via: la «Via del bagno caldo». Ci ha pensato Kundo Koyama, una delle menti più brillanti e creative di questo Paese, notissimo ai connazionali per i suoi programmi televisivi e radiofonici, per aver creato l’orsetto mascotte Kumamon per la sua provincia natale di Kumamoto, per il ristorante con annessa capanna del tè di Shimogamosaryo nei pressi del santurario shintoista di Shimogamo a Kyoto, oggi parte del board dell’Expo di Osaka 2025, ma noto anche al pubblico internazionale come autore del format televisivo Iron Chef (Ryori no testujin) e più ancora per il film capolavoro Departures (Okuribito), uscito sotto la regia di Yojiro Takita nel 2008 e pluripremiato nel 2009 al Far East Film Festival di Udine con il Gelso d’oro come miglior film e a Los Angeles con l’Oscar come miglior film in lingua straniera.
Yudo, traducibile letteralmente come la «Via del bagno caldo», è infatti il titolo del film diretto da Masayuki Suzuki su sceneggiatura di Koyama Kundo che si è aggiudicato il Gelso d’argento del pubblico, unico film giapponese tra i finalisti premiato quest’anno al Far East Film Festival. Yu è il carattere cinese di «acqua calda» – lo stesso con cui si scrive chanoyu per intendere la cerimonia del tè (letteralmente: «acqua calda per il tè»), mentre do indica come già detto la Via. Un film che nasce dall’esperienza personale di Koyama amante come tutti i giapponesi dell’ofuro, ovvero del bagno in quella vasca profonda e quadrata che per tradizione è costruita nella profumata essenza di legno di cipresso (hinoki), in passato usato da donne e uomini come profumazione infilata dentro le maniche del kimono in piccoli sacchettini. Kundo Koyama, tanto per cominciare, per il suo rito mattutino del bagno si è fatto costruire nel giardino della sua abitazione di Kyoto una stanza distaccata che ricorda una capanna del tè (chashitsu), peraltro presente poco lontano oltre un ponticello, con pareti e piastrelle dei colori della terra e parti riciclate da spazi dismessi di templi, e una grande vasca da bagno dietro il paravento.
La redazione consiglia:
Quei colori impigliati tra assenza e abbondanza
Ovviamente come ogni «Via» non poteva mancare la codificazione delle buone maniere (saho) e la scrittura delle regole base, illustrate e descritte nel manifesto fondativo sempre con grande e seria ironia: come ci si prepara al bagno, come si prepara l’acqua calda, come si entra, per quanti minuti si sta nell’acqua, come ci si rinfresca con il lungo e stretto asciugamano, come si usano secchio e mestoli, come ci si asciuga. Insomma, è questo lo spirito e il binomio che pervade anche il film, si potrebbe dire tra reverenza verso secoli di tradizioni e riti peculiari di questa cultura col chiaro desiderio di condurli al futuro e allo stesso tempo una dissacrante ironia verso l’ottusa rigidità che talvolta arriva a pervadere scuole di lunga tradizione quando lo spirito della naturalezza del gesto si perde dietro vuote imitazioni della forma. Ma il film va oltre il rito del bagno casalingo – che al massimo in passato poteva coinvolgere la famiglia che entrava in acqua a turno in ordine gerarchico a partire dal padre – e porta al centro della scena il bagno pubblico, il sento, edificio presente in tutti i quartieri del Giappone, in quanto luogo di aggregazione comunitaria. Da non confondere con gli onsen le vasche termali turistiche più raffinate con spazi al chiuso e all’aperto (ronteburo) costruiti con rocce e sassi affacciati sul verde di boschi e giardinetti nelle località dove l’acqua termale sgorga naturalmente.
IN UN PAESE in cui non esistono le piazze il sento fungeva, almeno fino a qualche decennio fa, da punto di ritrovo, di scambio, di conoscenza tra le persone. Gli avventori di ogni età e grado sociale, come si evince dal susseguirsi degli eventi nel film, al sento andavano, e vanno, non solo per lavarsi – in passato i bagni non erano presenti nelle singole abitazioni tradizionali – ma per incontrare il futuro amore, per rilassarsi o per scambiare chiacchere con amici, familiari e la gente del quartiere, e seppure lo spazio del bagno sia ancora oggi separato tra uomini e donne esistono linguaggi in codice e modi di comunicare che oltrepassano le pareti come un toc-toc del catino sul bordo vasca, una canzone. Le sale da bagno pubbliche poi erano diverse tra Tokyo e Kyoto: in quelle di Tokyo sulle pareti cerano spesse scene dipinte sulle piastrelle col monte Fuji; in quelle di Kyoto vedute della capitale, e vi sono ancora oggi artisti specializzati in queste vedute dalle semplici policromie.
Un po’ come le terme d’epoca romana, il bagno pubblico giapponese rappresenta un connettore sociale per la comunità di appartenenza, con usanze e regole silenti di comportamento, caratteristiche architettoniche e artistiche che ne definiscono l’atmosfera e il territorio e una rispolverata di questi valori culturali in termini anche pop ma profondamente consapevoli oggi e per questo anche irriverenti verso le regole scontate dell’abitudine può sicuramente portare alla nascita di una nuova tradizione.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento