Rintracciare un Giappone cromatico, che attraversi le epoche in una cavalcata sgargiante, significa inseguire anche le nuances stagionali, le striature dei petali, le fioriture primaverili, le luci terse dell’inverno, la mobilità delle acque che fluiscono, il bianco accecante dei «vuoti», il nero inchiostro delle lettere imperiali, il marrone-té-arancia.
Una storia che proceda per tinte del Sol Levante è infatti impossibile da scrivere al di fuori della «vita quotidiana» e di un itinerario che affonda le sue radici fra tradizione e cultura. Quindi si parte da una mimesi per poi accedere a una formalizzazione, costruendo un corpus di gradazioni simboliche che finiranno per pervadere la vita collettiva (dalle emozioni all’erotismo).
I colori, diceva il tedesco Wittgenstein, stimolano la filosofia (nelle sue Osservazioni sui colori, scritte fra il 1950 e il 1951). «Quello che mi occorre è una teoria dei colori psicologica o piuttosto fenomenologica, non una fisica e altrettanto poco una fisiologica. E precisamente dev’essere una teoria dei colori puramente fenomenologica, dove si parla solo di ciò che realmente si percepisce e dove non ricorrono entità ipotetiche». Così, un blu o un rosso sono principalmente concetti, rappresentano un sistema di segni e una grammatica linguistica che però possiede notevoli sfumature psichiche.
Molte tonalità del passato (il libro si chiude con una raffinata palette fin dalla nominazione di ogni pigmento: kamenozoki allude alla rapida immersione del tessuto nella tintura blu indaco, «sbirciando la tinozza») tornano oggi alla ribalta, pure industrialmente, rinnovando la loro fortuna in tappezzerie, stoffe, utensili seriali. Menegazzo avverte però che l’identità sfuggente dell’iro (colore) è fermamente ancorata in una opposizione interna che oscilla fra assenza e abbondanza. È qui forse la chiave di una possibile lettura del Giappone cromatico di tutti i tempi.