Sahir Ali è un ragazzo pakistano di 27 anni, vive da circa un anno in una casa abbandonata nella jungle di Biha, il più grande insediamento informale della città, o almeno in quelle quattro mura che avrebbero dovuto essere una casa. Non ci sono porte o finestre, non c’è acqua, riscaldamento, elettricità o servizi igienici, ma almeno ci sono un tetto e delle mura, materassi a terra e tende per dormire. Ali è una delle migliaia di persone in movimento, che hanno attraversato la rotta balcanica per ritrovarsi bloccati in Bosnia Erzegovina, nel cantone di Una Sana, a pochi chilometro dalla Croazia.

ALI ERA IN CROAZIA durante il suo ennesimo game (il tentativo di raggiungere l’Europa), quando il campo di Lipa andava a fuoco nel dicembre del 2020. Pochi giorni prima dell’incendio, aveva lasciato Lipa per andare a Biha, da dove sarebbe partito per provare ad arrivare in Croazia. Ci era riuscito ed era anche riuscito a raggiungere la Slovenia, persino vicino Lubiana, ma proprio lì è stato bloccato e deportato nuovamente in Bosnia, con un respingimento a catena. Nel 2020 lascia un campo che oggi non esiste più. Nel novembre scorso è stato inaugurato il nuovo campo di Lipa, dove le tende provvisorie hanno lasciato spazio a stabili container, circondati da cancelli e inferriate. Le immagini aeree rendono ancora più evidente la sua imponente fisionomia: una spianata di cemento e container bianchissimi, che sembrano dispiegarsi nell’altopiano come una ferita aperta nella terra.

NELLO SCENARIO DELLA BOSNIA attraversata dalla rotta balcanica, l’apertura del Temporary Reception Center (Trc) di Lipa ha segnato un ulteriore sviluppo nella gestione dei flussi migratori nel paese, tanto da essere definito «un centro migranti all’avanguardia» da Johann Sattler, rappresentante speciale dell’Unione Europea per la Bosnia Erzegovina. A spezzare quest’aura di impeto umanitario, che si è venuta a creare intorno alla nuova struttura, ci sono le voci critiche degli attivisti e delle organizzazioni che da anni lavorano sulla rotta balcanica. «Il fatto che ci vengano a raccontare che quel campo sia “all’avanguardia”, se non fosse paradossale e non suonasse come una beffa, porterebbe a chiedersi quali siano i parametri che queste persone hanno in testa, perché sicuramente non sono quelli della tutela».

DIEGO SACCORA (associazione «Lungo la rotta balcanica») commenta così le parole di Sattler ed è con questa convinzione che ha partecipato, come co-autore, alla stesura del rapporto pubblicato lo scorso dicembre dalla rete RiVolti ai Balcani” dal titolo «Lipa. Il campo dove fallisce l’Europa».

LA DECISIONE DI CREARE una struttura isolata con numeri elevatissimi, in un luogo decentrato in cui relegare le persone in movimento, è una delle ragioni del fallimento: «C’è da chiedersi se sia un fallimento, oppure una strategia deliberata, quella di creare luoghi del genere» afferma Saccora, al quale risulta molto chiara la strategia della deterrenza e del confinamento perseguita dalle autorità europee e bosniache. Il Trc è infatti situato in un altopiano, a due chilometri dalla strada asfaltata e a circa 25 chilometri da Biha, la città più vicina.

LA STRATEGIA DEI CAMPI è inserita all’interno di un sistema di accoglienza sostanzialmente inesistente in Bosnia, come denuncia la stessa “RiVolti ai Balcani” che parla proprio di «non-gestione strategica della questione migratoria». Questo è un ulteriore motivo di fallimento. La sosta forzata, imposta in questi luoghi sospesi a causa dei tempi d’attesa lunghissimi per l’esame delle domande di asilo, è una delle ragioni che portano le persone in movimento a scegliere di non rimanere in Bosnia, confermando la strategia della deterrenza e la vocazione a paese di transito. Nel 2020 le domande di asilo formalizzate in Bosnia, sono state 244 a fronte dei 16.150 ingressi nel paese, secondo le stime del Ministero della Sicurezza bosniaco.

ALI HA LASCIATO IL PAKISTAN perché a Mohmand Agency, il distretto pashtu in cui è cresciuto al confine con l’Afghanistan, gruppi talebani si fronteggiano continuamente con le forze governative. La sua famiglia ha sempre combattuto tra le fila di quest’ultime e per questo è dovuto scappare. Nonostante questo, ha deciso di non fare richiesta di asilo in Bosnia. Se ci si concentra sui numeri, il fallimento risulta ancora più evidente. Secondo Iom, con delle stime che risalgono a fine gennaio, il Trc ospitava 478 persone a fronte di una capacità di 1500 posti. Quello che emerge da questi dati è che le persone in movimento a Lipa non vogliono starci. A Biha, parlando con loro, c’è un’espressione che è sempre ricorrente: «Lipa is not good».

AMIR HUSSEIN (nome di fantasia), ragazzo pakistano di 17 anni, spiega perché non vuole stare nel nuovo Trc: «Il campo è lontano da Biha, dobbiamo camminare più di cinque ore per tornare in città e provare il game; non ci sono autobus e comunque non possiamo salirci perché non siamo bosniaci» racconta, mentre si appresta ad accendere il fuoco, e aggiunge: «Il campo non mi piace, c’è la polizia Sfa nel campo è questo il problema, tutti hanno paura di Sfa». Sfa è l’acronimo di Service for Foreigner’s Affair, l’unità amministrativa indipendente del Ministero della Sicurezza bosniaco, che ha in carico la gestione del Trc Lipa, la stessa unità che compie sgomberi violenti negli insediamenti informali a Biha.

Per questo hanno paura. Invece Sahir Ali, da quando ha lasciato Lipa nel 2020, non ci è più tornato e non ha intenzione di andarci. «È come una prigione, non c’è libertà ed è in mezzo al nulla, per questo alla gente non piace» dice Ali. «La sistemazione può essere buona ma la gestione è sempre la stessa» spiega: «Una volta quando eravamo in fila per il cibo nel vecchio campo, un ragazzo ha provato ad aprire una finestra della tenda e una persona della sicurezza si è accanita su di lui con calci e pugni ovunque. Ci trattavano come animali». Ricordando questa immagine, Ali dice che è anche per questo che non vuole tornare a Lipa.

NUMERI IN CALO. Gli attivisti e le attiviste di “No Name Kitchen”, ong indipendente che opera in Bosnia dal 2018, raccontano che negli ultimi mesi la pressione della polizia è stata forte, con sgomberi, aggressioni e minacce nei confronti delle persone in movimento, con intimidazioni anche nei confronti di chi li supporta. Ali racconta che, per diversi mesi durante la notte, lui e i suoi compagni non hanno potuto dormire nella loro casa, perché avevano paura che la polizia irrompesse, così avevano dovuto trovare un luogo più sicuro per riposare, oppure vagavano a piedi per la città.

 Profughi afghani in un insediamento in Bosnia. @Ap

AD OGGI LE PRESENZE a Biha, così come in tutta la Bosnia, sono drasticamente diminuite. Le stime Iom, pubblicate nell’ultimo rapporto, registrano in tutto il paese la presenza di 2060 persone nei campi formali e 366 persone in quelli informali. Chi lavora sul campo sostiene, però, che i numeri delle persone al di fuori del circuito dei Trc siano molto sottostimati, solo a Biha stimano una presenza media di 300 persone. Perry si trovava a Biha anche nel febbraio del 2021, quando l’emergenza provocata dall’incendio di Lipa produceva ancora i suoi effetti.

All’epoca Iom stimava la presenza di quasi 6000 persone nei centri e 2500 circa negli insediamenti informali. «Sappiamo che diversi gruppi si sono spostati a Sarajevo per l’inverno, ma certamente le persone sono molto diminuite. In generale lungo tutta la rotta ci sono meno persone e abbiamo sentito che, attraverso Serbia e Romania, la strada è più facile in questo momento. Penso che la rotta stia cambiando» conclude Perry.

IJAZ ULHAQ, RAGAZZO PAKISTANO di 22 anni, lo scorso 22 dicembre parte a piedi da Biha in direzione Banja Luka, con un gruppo di quattro amici, per tentare il game in un punto diverso ed evitare le montagne. Dopo sette giorni di cammino arrivano a pochi metri dalla frontiera ma, per entrare in Croazia, devono attraversare il fiume Sava. Il tempo non è buono e la corrente non è calma, ma decidono di attraversare a nuoto.

Lo fanno tutti, Ulhaq è l’ultimo e non sa nuotare bene, quando si butta in acqua i suoi muscoli si paralizzano per la paura e per il freddo, cerca di aggrapparsi dove può ma non riesce, così inizia a bere acqua e ad andare sotto. Ulhaq affoga, trascinato via dalla corrente. Gli amici, ancora sotto shock, si mettono in contatto con la polizia croata, che ride loro in faccia e li accusa di aver inventato tutto. Questo è il racconto dei compagni di viaggio di Ulhaq, raccolto dagli attivisti e dalle attiviste di “No Name Kitchen”. Il corpo di Ulhaq non è ancora stato trovato e nessuno lo sta cercando. Se a cambiare sono le rotte per raggiungere l’Europa, gli abusi e le violenze lungo i confini rimangono sempre le stesse.

DAVANTI AD UN NUMERO di presenze così ridotto, viene da chiedersi se questo dato segnerà la fine della rotta balcanica in Bosnia. «Guardando anche ad altri confini, le rotte sono sempre più invisibili e piccole, sempre più nascoste agli occhi della cittadinanza e delle polizie. Sono rotte usate da anni e anni, non c’è niente di nuovo. Nuovi sono i filtri che l’Europa ha iniziato a porre quasi fino ai paesi di origine per questo la gente si muove in maniera più stratificata» afferma Diego Saccora.

PER FORZA DI COSE, l’evoluzione della rotta balcanica in Bosnia dipenderà dagli sviluppi geopolitici in est Europa. La guerra in Ucraina ha risvegliato nel paese i traumi della guerra degli anni ’90, soprattutto dopo che il leader serbo della Republika Srpska, Milorad Dodik, ha minacciato la secessione dalla Federazione bosniaca, ma anche in seguito alle dichiarazioni dell’Ambasciata Russa a Sarajevo dello scorso anno, la quale ha avvertito che se la Bosnia dovesse aderire della Nato «il nostro Paese dovrà reagire a questo atto ostile». Per questo diversi osservatori hanno espresso preoccupazione rispetto al rischio che il prossimo fronte di crisi potrà aprirsi proprio nei Balcani occidentali.