Con le immagini della militanza
Intervista Un incontro con il fotoreporter, attivista ed educatore Shahidul Alam durante il suo talk a Exposed, di Torino. «Una volta tornato in Bangladesh, nel paese dove avevamo combattuto per la guerra di liberazione e l’uguaglianza c’era una dittatura militare, così ho iniziato a lavorare per la democrazia»
Intervista Un incontro con il fotoreporter, attivista ed educatore Shahidul Alam durante il suo talk a Exposed, di Torino. «Una volta tornato in Bangladesh, nel paese dove avevamo combattuto per la guerra di liberazione e l’uguaglianza c’era una dittatura militare, così ho iniziato a lavorare per la democrazia»
«Non raccomando il carcere ma per quanto mi riguarda è stata un’esperienza positiva: mi ha dato l’opportunità di vedere dall’interno aspetti della società che conoscevo solo in teoria e sono stato in grado di creare solidarietà che in altro modo non sarebbe stato possibile», ha affermato il fotoreporter, attivista ed educatore Shahidul Alam (Dhaka 1955, vive e lavora a Dhaka, Bangladesh) in occasione del talk Il cono d’ombra: dove termina la democrazia e inizia la censura al Museo di arte orientale di Torino che l’ha visto dialogare con l’artista e attivista Yasmine Eid-Sabbagh e il direttore del Mai Davide Quadrio nell’ambito di Exposed Torino Foto Festival.
Nel 2018 Shahidul Alam ha trascorso 108 giorni detenuto nella prigione Dhaka Central a Keraniganj con l’accusa di «diffusione di propaganda e false informazioni contro il governo» dopo un’intervista con Al Jazeera in cui criticava il governo per la gestione delle proteste.
Si considera un attivista che usa la fotografia: alla fine degli anni ’70, quando era in Inghilterra per studiare chimica, come ha scoperto il potere della fotografia e quali sono stati i passi successivi?
Andai a Londra per il PhD intorno al 1977, dopo essermi laureato a Liverpool. Sono diventato fotografo negli anni ’80 fondamentalmente perché ero coinvolto con il Partito socialista dei lavoratori. Andavo insieme a loro alle manifestazioni per i diritti umani – diritti dei gay, razziali – ed è lì che mi sono accorto di quanto fosse potente la fotografia nelle campagne. Provengo dalla classe media del Bangladesh dove ci si aspetta che, soprattutto un giovane uomo, faccia una carriera rispettabile, magari il medico o l’avvocato, certamente non il fotografo. Nessuno nella mia famiglia aveva mai avuto a che fare con l’arte o il giornalismo, ma io avevo sperimentato la forza di questo mezzo. Sono sempre stato interessato alla giustizia sociale. Sono andato via da casa subito dopo la guerra di liberazione, ma poi ho deciso di tornare per poter continuare ad occuparmene. Capii che avevo scoperto lo strumento per farlo, ma non sapevo se essere fotografo mi avrebbe dato da vivere. In fondo, però, avevo un PhD che poteva essere la mia ruota di scorta, qualora le cose fossero andate male. Ho cominciato a lavorare come reporter proprio a Londra, in un piccolo studio dove ritraevo bambini. È stata una buona formazione perché andava oltre il lavoro in sé. Fermavo la gente in strada, la fotografavo e poi cercavo di vendere le stampe ma durante questo processo la cosa più importante che ho imparato – credo che sia anche la più grande abilità per un fotografo – è il coinvolgimento delle persone, saper creare una relazione di fiducia. La tecnica è secondaria. All’epoca guadagnavo molto, 350 sterline a settimana! Non avevo mai avuto tanti soldi in vita mia. Ero molto richiesto ma capii che ero finito in un territorio pericoloso, perché quando ti dicono che sei una star il rischio è che cominci a crederci. Ero troppo vicino a una vita comoda e questa sarebbe stata la mia fine di attivista e artista. Così, decisi di tornare a casa e ricominciare. Ma quando arrivai scoprii che nel paese dove avevamo combattuto per la guerra di liberazione e l’uguaglianza c’era una dittatura militare, così ho iniziato a lavorare come fotografo per portare la democrazia. Non venivo pagato per questo, campavo facendo pubblicità, fotografia industriale, moda ma realizzavo foto in strada per il nostro movimento. È quello che ancorami impegna.
Nella formazione del suo sguardo ha influito il lavoro di fotografi come Manzoor Alam Beg, Rashid Talukdar (che ha documentato il genocidio durante la guerra di liberazione del Bangladesh del 1971), Anwar Hossain e Bijon Sarkar. È stato importante anche l’insegnamento dei suoi genitori, suo padre Kazi Abul Monsur era medico e microbiologo e sua madre Anwara Monsur psicologa infantile…
Non è stata tanto importante la loro professione quanto le persone che erano. Mio padre voleva una moglie che fosse istruita e mia madre dovette studiare di nascosto da mia nonna paterna: per lei, non era appropriato che una sposa fosse laureata. Indossava il burqa e un cognato ufficialmente la accompagnava a fare visita a un’amica, invece andava all’università a seguire le lezioni ed è così che si è laureata. Poi, dopo la partizione, quando sono andati in Bangladesh, mia madre voleva creare una scuola per ragazze ma nessuno era interessato. Comprò una tenda e la mise in mezzo a un campo da gioco nella zona di Azimpur Colony a Dhaka e cominciò a fargli lezione. Oggi è uno dei college femminili più prestigiosi del paese (Agrani Balika Biddalaya, ndr). È morta da tempo ma a ottant’anni ancora andava lì ogni giorno per controllare che tutto funzionasse bene. Mio padre, invece, che era medico, dopo la guerra lavorò con l’Unicef per la ricerca del vaccino anti colera e stabilì il primo stabilimento di fluidi per via endovenosa del paese. Entrambe sono state persone che hanno rischiato e creduto in qualcosa, questo è il sistema di valori che mi hanno insegnato.
Qual è il rapporto tra la fotografia come strumento di militanza e la scrittura?
Non vedo la fotografia e la scrittura come due discipline così separate, certamente sono mezzi differenti ma entrambe creano un immaginario, delle idee e lavorano in maniera complementare. Sia l’una che l’altra possono essere strumenti di militanza, ma ce ne sono anche altri. Ho scritto una poesia per Gaza (Genocide’s Claim, ndr) e l’ho pubblicata online; potrei cantare o ballare, anche se non sono un grande ballerino. Qualsiasi strumento può essere necessario.
«La resistenza è collettiva, non individuale» è una sua frase che è diventata un motto per almeno due generazioni di fotografi che in Bangladesh si sono formati con lei, tra loro Saiful Huq Omi e Tahia Fahrin Haque. Un aspetto fondamentale del suo lavoro è proprio quello di educatore, a Dhaka ha fondato Drik Picture Library, Pathshala Media Institute, Majority World Agency e il festival internazionale di fotografia Chobi Mela…
Una delle cose che fanno i dittatori e i politici è usare a loro favore le istituzioni statali che dovrebbero essere al servizio del popolo e che, invece, diventando estensioni della macchina governativa. Quando ciò succede è necessario costruire spazi dove le persone possano esercitare i loro diritti. Molto presto ho capito l’importanza di creare istituzioni resilienti in grado di fare quello che il singolo non può. Oggi le nostre istituzioni sono come un’oasi nel deserto, in un regime molto repressivo con problemi legati ai cambiamenti climatici. La gente non parla sia per via della censura che per paura. Pathshala, Chobi Mela, Drik sono parte di un ecosistema dove ci si può riparare e pensare liberamente. È quello che dovrebbero fare le istituzioni pubbliche. È triste dirlo perché sono orgoglioso del mio paese però in questo momento in Bangladesh ogni università pubblica ha una cella di tortura e nel 2019 lo studente Abrar Fahad, per aver criticato l’India, è stato picchiato fino alla morte nel dormitorio. Hanno iniziato a colpirlo, si sono presi una pausa per vedere una partita di calcio e poi hanno ricominciato e lo hanno finito. È successo alla Bangladesh University of Engineering (Buet) di Dhaka. Per questo è fondamentale coltivare spazi alternativi, ma anche possedere strumenti che possano essere usati per protestare, come i «chintar khorah» («cibo per la mente») – una tazza, una maglietta, una borsa – «oggetti disobbedienti» di uso quotidiano che contengono messaggi di ribellione.
Tornando al fotogiornalismo: nella documentazione del dramma, come vediamo anche nel suo ultimo libro «The Tide Will Turn» (Steidl, 2022), da Chittagong dopo un disastro ambientale alle manifestazioni per le strade di Dhaka, dai campi profughi di Teknaf alla prigione Dhaka Central a Keraniganj, qual è per lei il confine tra etica ed estetica?
Non credo siano due termini in contraddizione, piuttosto penso che siano complementari. Uso l’estetica perché è in grado di coinvolgere il pubblico. L’etica è la capacità di non allontanarsi dal sentiero.
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