Con la guerra il confine si trasforma in frontiera che diventa barriera
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Con la guerra il confine si trasforma in frontiera che diventa barriera

Conflitti armati Il dualismo amico-nemico diventa un gioco mortale e si ossifica. La differenza si trasforma in estraneità e ostilità. Se sei critico con la Nato diventi subito un putiniano

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 maggio 2022

Il grande paleontologo Stephen Jay Gould e, sulla sua scia, il sociologo Richard Sennett hanno rilevato che la differenza fra confini e frontiere che coinvolge tutta la vita biologica, ambientale e sociale. Il confine è ciò che determina la relazione tra sistema e ambiente, tra la cellula e il suo intorno, tra l’individuo e quel che lo circonda, tra una collettività e un’altra, tra il sé e l’altro. Il confine è segno di libertà associata alla cooperazione, allo scambio, allo stare insieme mentre ciascuno resta sé stesso. La frontiera è indice di paura, di prigionia, di irraggiungibilità, di estraneità, di ostilità. E’ il muro innalzato che uccide la contiguità allontanando chi pur stando vicino è ormai diviso e separato.

I confini si aprono, le frontiere si chiudono. Oggi, con il ritorno della guerra in Europa, il problema della differenza tra confini e frontiere si ripropone da noi tragicamente.
La parola latina hostis percorre l’ambigua e faticosa via che dal confine va alla frontiera, perché è la strada che dall’ospitalità porta all’ostilità.

Stiamo ritornando alla chiusura delle frontiere. Esterne ed interne. Già la pandemia ha trasformato i confini in frontiere dentro di noi. Ora la guerra sta esportando questa trasformazione anche fuori di noi. Ma in fondo, nelle acque del mare Mediterraneo, in mezzo ai morti annegati, tra cui donne incinte e bambini innocenti, le frontiere c’erano già e si opponevano cinicamente e disumanamente ai confini che univano l’Europa. Sì, perché i confini sono la vita; permettono l’osmosi, lo scambio, la comunicazione tra cellule, piante, animali, esseri umani; le frontiere sono i muri che tornano ad alzarsi non solo nel mondo esterno ma anche nel mondo interno, quello che abbiamo dentro, la caverna in cui introiettiamo la violenza del fuori. I confini danno conto della complessità della vita, della storia, della società, le frontiere ci fanno tornare alla semplificazione, non quella necessaria per comprendere e ordinare il mondo e che non va scambiata con il mondo, ma quella che si confonde con il mondo e con la realtà e, ciò facendo, diventa realtà.

Il dualismo amico-nemico diventa un gioco mortale e si ossifica. Nemico diventa chiunque non la pensa come te. Il confine è già frontiera e la frontiera è a sua volta barriera. La differenza si trasforma in estraneità e ostilità. Se hai da dire qualcosa di critico sulla Nato diventi immediatamente un putiniano. Come se vi fosse una nostalgia della semplificazione amico-nemico ai tempi del muro di Berlino.

La differenza è ciò che permette a un confine di essere non un luogo della separatezza (tra interno e esterno, tra primo piano e sfondo, tra apparenza e realtà, tra mente e corpo), ma della comunicazione. La frontiera annichilisce la differenza e impone la condizione di alterità, di estraneità, di non familiarità, saldando così in modo sclerotico un’identità collettiva, che si autodetermina grazie alla distinzione, alla separazione, alla messa fuori del confine dell’altro, dell’estraneo, del non familiare (si potrebbe specificare: del mostro, del pazzo, del malato, del selvaggio, del primitivo, del barbaro, dell’ebreo, del negro, del nemico). Il bisogno di sicurezza diventa prigione aggressiva e il senso critico della ragione si affievolisce.

Nel dualismo amico-nemico i confini diventano dunque frontiere e i diaframmi si trasformano in muri.
I confini stanno dalla parte della pace, le frontiere da quella della guerra. Ciò che distingue il senso metodico e razionale della pace è porsi come scopo quello di riportare le frontiere allo stato di confini, lottare perché ciò torni ad essere. Questo fu a mio parere il senso della Resistenza italiana e della Costituzione, e in particolare dell’articolo 11, fatta da uomini, ideologie e partiti che non erano più separati dalla frontiera fascista e dal suo potere omologante al suo interno e perciò capace di considerare come nemico chiunque non rientrasse in quella omologazione. Le donne e gli uomini della Resistenza erano divisi sì, ma da confini attraverso cui poterono comunicare e, nelle differenze, raggiungere uno scopo comune e cioè la formazione di uno stato democratico.

Oggi come ieri prendere partito significa stare dalla parte dei confini e cioè stare dalla parte della vita e della pace, significa respingere la tentazione delle frontiere, perfino quando esse vengono imposte da altri, rifiutare cioè di stare dalla parte della morte e della guerra. Questo vuol dire arrendersi, cedere al più forte, subire, accettare la sottomissione? Significa al contrario non perdere la testa e il senso critico della ragione, essere autonomi, uscire da quello stato di minorità che, come ricordava Kant, ci impedisce di usare il nostro intelletto senza la guida di un altro.

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