La riforma della giustizia penale e civile, contenuta nei decreti legislativi emanati ieri dal Governo dopo l’approvazione nelle settimane scorse da parte delle Commissioni di Camera e Senato, include anche la giustizia riparativa, a completamento del lavoro svolto per molti mesi da una Commissione ad hoc presieduta da Adolfo Ceretti. Per la verità è da più di vent’anni che in Italia esiste già, la giustizia riparativa – intesa come modello di risoluzione dei conflitti diverso dalla pura e semplice celebrazione di un processo e dalla pura e semplice emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione.

Esiste da quando, verso la fine degli anni novanta, a Torino, Milano e Bari erano stati aperti, quasi come un’utopia che cominciava allora a prendere forma, i primi Uffici per la mediazione penale minorile. Però non esisteva ancora una legge che ne regolamentasse il modello, che ne offrisse una disciplina organica e completa, e che quindi le conferisse una legittimazione definitiva, istituzionale, ufficiale. Adesso la legittimazione è arrivata. Adesso la rivoluzione è completa e, potremmo dire, l’utopia realizzata: perché adesso la giustizia riparativa è finalmente diventata una legge a tutti gli effetti.

È una legge bellissima. È una legge nella quale troviamo parole quali «riparazione dell’offesa», «riconoscimento reciproco», «responsabilizzazione», «legami con la comunità». Sembra l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso, verso un orizzonte più lontano, oltre i confini delle norme. Di un diritto che finalmente si ricorda che, dietro i propri elementi tecnici e formali, esistono vite incarnate, persone in carne e ossa: persone con le loro vite, le loro storie, i loro corpi, che desiderano altro che non essere solo sanzionate o minacciate, che chiedono anche di essere accolte, ascoltate, coinvolte.

Accade talmente di rado che sembra, anzi, perfino di più: quasi la materializzazione di un diritto che finalmente recupera la sua vera funzione, che dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze, piuttosto che pretendere solo obbedienza secondo una concezione puramente verticale e coercitiva dei rapporti. Un diritto “mite”, per usare una celebre formula di Gustavo Zagrebelsky: davanti al quale non ci si debba sentire per forza soli e disarmati, o addirittura sconfitti.

Perché questo è la giustizia riparativa, e la legge lo spiega molto bene (è una legge bellissima anche perché è semplice, chiara e precisa e si lascia capire da chiunque): una giustizia dell’incontro, che offre ad autori e vittime dei reati un’occasione, che nessun altro luogo dell’ordinamento prevede, per superare insieme le conseguenze generate dal reato, al di là dei singoli ruoli processuali. Il senso della giustizia riparativa, se si vuole, è tutto qui: sembra forse poco ed è invece moltissimo, è la costruzione di un tempo e di uno spazio riservati e confidenziali all’interno dei quali, alla presenza di un mediatore imparziale ed “equiprossimo”, ciascuno si vede garantito un uguale diritto di parlare e di essere ascoltato.

Certo, la legge contempla la possibilità di un “esito riparativo”: ma questo esito può avere il contenuto più vario, materiale o simbolico, e non deve consistere a tutti i costi in una riconciliazione. Da parte sua l’autorità giudiziaria potrà sempre valutarlo liberamente, senza esserne vincolata; così come la mancata adesione al programma o la sua interruzione anticipata o anche lo stesso mancato raggiungimento di un esito non potranno avere ricadute negative sull’autore del reato.

A conferma del fatto, appunto, che la giustizia riparativa non intende sovrapporsi al processo, né sostituire una sentenza con un accordo: il piano su cui opera è diverso, quel che le interessa è esattamente ciò che nel processo non entra – le ferite, i vuoti, le mancanze.

Qualcuno obietta: sono solo bei sogni, solo belle intenzioni. Ma la replica è facile. Sia perché è da più di vent’anni che alle belle intenzioni corrispondono già risultati concreti, e soddisfacenti. Sia perché non è forse proprio questo che il diritto dovrebbe fare, o fare di più? Coltivare sogni, e trasformarli in leggi.