Un pickup della polizia penitenziaria frena bruscamente davanti alla Torre de Tribunales del palazzo di giustizia di Città del Guatemala. Una decina di poliziotti armati di fucile saltano giù dal cassone posteriore e corrono verso un camion che si parcheggia alle loro spalle. Aprono le porte e ne esce un uomo alto e sottile, vestito di nero con una cravatta rossa. Lui è José Rubén Zamora Marroquín, detto Chepe, 66 anni, una delle penne più scomode di tutto il Guatemala, direttore del defunto quotidiano elPeriódico, che mercoledì 14 giugno è stato scortato dalla polizia penitenziaria per presenziare all’atto conclusivo del processo intentato contro di lui dalla nuova Fiscalía Especial contra la Impunidad (Feci) per riciclaggio di denaro, ricatto e traffico di influenze.

SULLA SUA FACCIA una smorfia incastrata a metà tra l’ansia di essere condannato e la sicurezza delle sue convinzioni. Ad aspettarlo decine di giornalisti spalla a spalla tra la polizia per portarsi a casa la foto di Zamora nel giorno della sua sentenza, a memoria di uno dei casi giudiziari più controversi degli ultimi anni di storia del Guatemala, che ha colpito due volte: il diretto interessato e la libertà di espressione nel paese.

LA PROFEZIA fatta da Zamora all’inizio del processo, riassunta nelle parole Me van a sentenciar si è avverata. Il giornalista è stato condannato a sei anni di carcere e al pagamento di una multa di circa 35 mila euro per riciclaggio di denaro, assolto invece per traffico di influenze e ricatto. Il Tribunale di Sentenza Penale dell’organismo di giustizia guatemalteco non ha potuto fare a meno di comprovare che, per questi ultimi due reati, il Pubblico ministero della Feci non è riuscito a raccogliere prove tangibili contro il giornalista in carcere dal 29 luglio 2022, a soli 5 giorni dall’uscita di un reportage che metteva in luce presunti atti di corruzione del presidente del Guatemala, Alejandro Giammattei. Nella stessa udienza è stata assolta per il reato di rivelazione di informazioni confidenziali Samari Carolina Gómez, ex procuratrice della stessa Feci che oggi l’accusa, un organismo della procura nato per indagare casi di corruzione nel governo, ma che da quando è guidata da Rafael Curruchiche, iscritto dagli Stati uniti nella Lista Engel delle persone coinvolte in atti di corruzione, pare più preoccupata a perseguitare ex procuratori, giudici, avvocati e giornalisti. Dopo la sentenza, Curruchiche ha dichiarato che farà ricorso perché Zamora e Gómez vengano condannati al massimo della pena.

SEI ANNI e una multa suonano a semi-vittoria per Zamora, rispetto ai 40 anni di carcere richiesti per lui dal Pubblico ministero durante la requisitoria del 30 maggio. Tuttavia, sei anni sono troppi se le prove a carico dell’imputato sono deboli e, secondo la legge, il reato di riciclaggio di denaro sussiste se l’origine dei soldi è illecita. Questo elemento non è stato provato, ma il tribunale ha dato per buone le accuse del Pm secondo le quali Zamora avrebbe chiesto all’ex dirigente di banca Ronald García Navarijo, già indagato per corruzione e principale accusatore del giornalista, di riciclare circa 35mila euro. Secondo Zamora, la somma di denaro in realtà sarebbe lecita e proverrebbe dalla vendita in contatti di un’opera d’arte per pagare gli stipendi ai giornalisti del suo quotidiano, chiuso dal 15 maggio scorso a causa del collasso finanziario dovuto al sequestro dei conti correnti ordinato dalla Feci.

«TUTTI I MIEI DIRITTI sono stati violati. Non ho avuto diritto al giusto processo: ho avuto 9 avvocati, quattro dei quali sono stati perseguitati dallo Stato e due si sono rifugiati all’estero. Questo è avvenuto per negarmi una difesa efficace». Così recita una parte del discorso di 17 pagine che Zamora ha provato a leggere prima di venire zittito dalla giudice che gli ha concesso cinque minuti per concludere, lasciando di stucco giornalisti, organizzazioni della società civile e quattro osservatori dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Diritti umani presenti in sala.
«In questo paese c’è una dittatura velata e multipartitica» – commenta Zamora che in questo processo si è spesso definito prigioniero di coscienza. E di fatto numerose organizzazioni di difesa della libertà di espressione, tra cui la Sociedad Interamericana de Prensa, confermano le sue parole e bollano il processo contro il giornalista come sintomo del declino dello stato di diritto in Guatemala.

«NON C’ERANO PROVE per condannare Zamora, ma questo è avvenuto ugualmente perché il sistema giudiziario guatemalteco è soggiogato a organismi di potere esterno che decidono chi deve essere detenuto – commenta Jorge Santos, coordinatore generale dell’Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos del Guatemala – Viene colpito chi denuncia atti di corruzione e impunità e si oppone al regime che si sta installando nel Paese».
La condanna di Zamora e, di conseguenza, anche il collasso del suo quotidiano, è un avvertimento a tutta la stampa nazionale. Annichilire il famoso giornalista significa mandare il messaggio che ad esprimersi liberamente si rischia il carcere o peggio. Questa minaccia si trasforma in una vera e propria vendetta nel caso della persecuzione del pool di giudici, molti dei quali precedentemente operativi nella Feci che lavorava a fianco della Comisión Internacional Contra la Impunidad en Guatemala (Cicig), organismo dell’Onu istituito nel paese nel 2006 per indagare gravi casi di corruzione, smantellata nel 2019 dall’allora presidente Jimmy Morales. Se è vero che mercoledì l’ex procuratrice Samari Carolina Gomez è stata riconosciuta innocente, non vale la stessa cosa per oltre 24 operatori di giustizia, tra cui l’ex direttore della Feci, Juan Francisco Sandoval in esilio a Washington, scappati all’estero per sfuggire alla caccia alle streghe lanciata dal nuovo gruppo di giudici scelto dai settori politici più conservatori del Guatemala.

INTANTO su Chepe Zamora pesa una nuova accusa notificatagli il giorno prima della sentenza per supposta firma falsa di documenti migratori, su cui il giornalista non si è espresso, impegnato a sul fronte della sua prima sentenza. «Io sono innocente. Farò ricorso e se non basterà mi rivolgerò alla Corte Interamericana dei Diritti umani» commenta Chepe, prima di scendere le scale claustrofobiche alla flebile luce dei neon della Torre de Tribunales ed essere scortato in carcere.