Dubito che Bonaccini sia la soluzione delle tante criticità che affliggono il Pd. Per molte ragioni inscritte sotto la voce “continuismo”. A fronte della portata della crisi del Pd – politica prima che elettorale, al punto da evocare una nuova costituente, un nuovo inizio, un nuovo Pd – come si può pensare di sortirne con una soluzione convenzionale, che, sotto più profili, reitera i problemi di sempre?come si può pensare di sortirne con una soluzione convenzionale, che, sotto più profili, reitera i problemi di sempre? Con il rischio di vincere dentro il partito e (continuare a) perdere nella società. L’opposto di ciò di cui ci sarebbe bisogno: discontinuità e persino rottura. Una candidatura che innovi, allarghi, sparigli. Mi spiego così il “paradosso Franceschini”, il più professionale dei dirigenti Pd che, con il suo freddo realismo, mostra di avere inteso che, senza la scossa di un nome “fuori sacco”, ne va della vita stessa del partito e, a ricasco, delle stesse correnti.

Solo per titoli. Ci vorrebbe una figura che fornisca plasticamente l’idea che un certo digiuno dal potere farebbe bene a un partito “ministeriale”. Non esattamente il messaggio trasmesso da chi cumulerebbe due cariche che, entrambe, esigerebbero un impegno senza distrazioni. C’è poi il nodo del “renzismo”. Tutti i più zelanti sostenitori di Bonaccini, oltre a lui stesso, sono stati organici a quell’esperienza. A cominciare da quelli che ci hanno inflitto lo spettacolo mediocre di finte autocandidature per poi puntualmente mettersi al carro del favorito. Da Nardella a Ricci.

Nel mentre ci si propone di marcare una discontinuità rispetto al passato come si può pensare di non farlo rispetto alla stagione più controversa e, va detto, comunque la si giudichi, politicamente più significativa della vicenda del Pd e della sinistra italiana? Un deragliamento mai davvero elaborato.

Ancora: il nodo da tutti evocato dello strapotere delle correnti delle quali sarebbe stato sempre ostaggio il leader di turno. Sono bastate poche settimane per registrare il riallineamento della più parte di esse a sostegno del candidato giudicato in vantaggio. A dispetto delle smentite di rito. Facendo ricorso a uno scoperto escamotage: il territorio, la rete degli amministratori locali. Come se le correnti fossero un male circoscritto ai vertici romani.

Né si capisce come chi si candida alla guida di un partito nazionale possa qualificare politicamente la sua proposta con la retorica dei territori. Ove semmai è richiesta una visione politica nazionale e oltre, un orizzonte largo e lungimirante. Ben oltre la buona amministrazione. Affonda le radici qui la vecchia convinzione, di scuola Pci, secondo la quale i dirigenti emiliani del partito fossero meno versati per una leadership nazionale. Tesi certo discutibile.

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Si vorrà tuttavia convenire che è presuntuosa e superficiale la convinzione che chi vince in Emilia – e ci mancherebbe – disponga della ricetta sicura per vincere in Italia. Come se fosse la stessa cosa e come se la buona amministrazione emiliana fosse merito del presidente di turno e non di una lunga, consolidata tradizione. Da Fanti a Bersani ad Errani (mi sovviene Formigoni che vantava come merito suo la circostanza che la Lombardia fosse messa meglio delle regioni del sud).

E qui si pone appunto, per il Pd, il problema del mezzogiorno. Alludo al sistema di potere personale messo su dai due “governatori” De Luca ed Emiliano. Si dice che starebbero per convergere su Bonaccini. Tanto peggio. Un sostegno di peso, ma che, va detto, rischia semmai di avallare una patologia anziché di inaugurare una nuova, buona politica e, segnatamente, un rapporto sano tra partito e amministratori. I quali, nei suddetti casi, il partito lo ignorano o addirittura lo sbeffeggiano.

E non si fanno scrupolo di raccogliere sostegni e di intessere legami trasversali, con reti a strascico da destra a sinistra. Emiliano altresì avrebbe posto una condizione: un veto contro ogni alleanza con il Terzo Polo. Non ce lo vedo Bonaccini a sottoscrivere tale condizione. Una discriminante, va detto, non priva di plausibilità perché semplifica a dismisura chi, per il Pd, in tema di alleanze, mette sullo stesso piano M5S e Terzo Polo.

Conte, è vero, è un competitor (fa parte delle regole del gioco) ma sta comunque alla opposizione del governo di destra, Calenda e più ancora Renzi – lo dichiara lui stesso – si ripromettono di distruggere il PD e, per essere generosi, stanno a cavallo tra maggioranza e opposizione.