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«Complimenti a chi ha tagliato il collo del diavolo col rasoio»

«Complimenti a chi ha tagliato il collo del diavolo col rasoio»Edicola a Teheran – Getty Images

Salman Rushdie Le reazioni in Iran. Al momento, le autorità tacciono ma la stampa conservatrice (e non solo) attacca

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 14 agosto 2022

Per ora non ci sono reazioni ufficiali delle autorità iraniane all’attentato a Salman Rushdie, ma l’agenzia Fars ha pubblicato un editoriale sul ferimento dello scrittore anglo-indiano augurandosi che «tiri le cuoia» e che «con la morte di questo autore satanico il cuore ferito dei musulmani possa guarire dopo tutti questi anni». Di pari passo, sul quotidiano conservatore Kayhan l’editorialista si congratula con l’aggressore: «Complimenti a questo uomo coraggioso, che ha fatto il suo dovere attaccando l’apostata e depravato Salman Rushdie a New York». Sempre sulle pagine di Kayhan si legge: «Baciamo le mani di colui che ha reciso con un coltello il collo del nemico di Dio». Queste parole sono probabilmente espressione del pensiero del leader supremo Ali Khamenei, perché il direttore del quotidiano Kayhan è nominato direttamente da lui.

QUESTI TONI sono mantenuti dalla maggior parte della stampa iraniana, che si complimenta con l’aggressore che «ha tagliato il collo del diavolo con un rasoio». Fa eccezione soltanto il quotidiano Etemad, perché riformista. Per ora le autorità iraniane tacciono, ma qui e là qualche dichiarazione arriva. Il consulente della squadra iraniana sul nucleare, Mohammad Marandi scrive per esempio su Twitter che non verserà «lacrime per uno scrittore che ha diffuso odio nei confronti dei musulmani e dell’Islam». E rimarca che è «strano che l’attentato a Rushdie sia avvenuto proprio adesso, mentre l’accordo nucleare stava arrivando a compimento». Scaricare la colpa sul Mossad sembra però irrealistico, anche perché l’aggressore di Rushdie pare sia un simpatizzante dei pasdaran iraniani.

Dopo la crisi degli ostaggi americani, è la fatwa contro Salman Rushdie a rendere inevitabile l’isolamento della Repubblica islamica dell’Iran sulla scena internazionale. Il 14 febbraio 1989 viene reso pubblico il messaggio in cui l’Ayatollah Khomeini condanna a morte per il reato di apostasia Salman Rushdie, l’autore dei Versi satanici, un romanzo i cui contenuti offendono l’islam, in cima alla classifica dei libri più venduti anche a causa della presa di posizione di Khomeini.

POCHI GIORNI DOPO l’organizzazione Punzdah-e Khordad offrirà un milione di dollari a chi uccide lo scrittore anglo-indiano. La taglia verrà poi innalzata a due milioni e mezzo di dollari. A pagare il prezzo di quella condanna a morte è stato e sarà ancora il popolo iraniano, in termini di isolamento internazionale.

Quella contro Rushdie non può però essere considerata una fatwa in senso stretto perché la fatwa non è una condanna morte, ma è paragonabile allo jus respondendi del diritto romano: è la risposta, scritta a mano e datata, di un religioso qualificato a una domanda su una questione inerente la sharìa (legge islamica). Per essere tale, la fatwa deve avere tre elementi: un oggetto, un individuo o un gruppo che pone la domanda e la persona che risponde.

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MA A KHOMEINI non venne posta alcuna domanda: la pubblicazione dei Versi satanici stava infiammando milioni di musulmani nel subcontinente indiano ma non aveva portato ad alcuna manifestazione in Iran, dove Rushdie era noto nei circoli letterari per un’opera precedente, per la quale aveva persino ricevuto un premio dagli stessi iraniani. Guardando le proteste che infiammavano il Pakistan, Khomeini si sentì forse in dovere di esprimere la propria opinione.

Così, la condanna contro lo scrittore va interpretata alla luce dei grandi cambiamenti introdotti dall’Ayatollah nel contesto sciita, nel tentativo di rinsaldare il mondo musulmano al di là dell’Iran. Inoltre, Khomeini non scrisse di proprio pugno il documento, che non presenta né la sua firma né la data. La forma non rispecchia quella della fatwa. Infine, nel 1989 Khomeini non era un semplice mujtahid, bensì il leader dell’Iran, l’uomo che di fatto governava il paese.

In realtà, non fu lui a usare la parola fatwa in merito alla condanna a morte di Salman Rushdie. Questo termine venne utilizzato per la prima volta il 17 febbraio dallo studioso francese Olivier Roy in un articolo su Le Monde seguito a ruota da Gilles Kepel, sulla stessa testata. La stampa e i politici iraniani preferirono payam («messaggio»), mentre alcuni studiosi hanno scelto hokm («editto»).

Khomeini poi utilizzò la parola fatwa come sinonimo di «condanna a morte» soltanto il 22 febbraio. In ogni caso, cambia poco: la condanna contro lo scrittore anglo-indiano ha avuto e continuerà ad avere a lungo conseguenze pesantissime per il popolo iraniano.

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