Con chi si possono allegramente mangiare le frittelle ai mirtilli se non con il proprio papà? Dulcinea, l’ultima eroina venuta al mondo tra le parole e i colori dello scrittore e illustratore tedesco Ole Könnecke (1961, Göttingen), ne è convinta ma sa anche che, per tornare a farlo, dovrà munirsi di una buona dose di audacia e salvare quel suo genitore, affrontando oscuri presagi, fitte foreste e malefici. Dulcinea nel bosco stregato è l’ultimo albo dell’autore (Beisler, traduzione di Chiara Belliti, pp. 64, euro 14) che sarà al Festivaletteratura di Mantova, alla Casa del Mantegna, giovedì 9 e venerdì 10, con due laboratori di «disegno e coraggio», ispirati ai suoi personaggi più amati. Fra questi, c’è pure il cowboy del picture book Desperado (sempre Beisler) che, cavalcando un piglio scanzonato, si è aggiudicato il premio Andersen l’anno scorso (miglior libro 0-6 anni).

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Lei è cresciuto in Svezia, la patria di Pippi Calzelunghe, paese con una grande tradizione di scrittura per l’infanzia. Ha influenzato la sua scelta professionale essere circondato da quella letteratura e non dai libri tedeschi?
La mia non è stata proprio una scelta; la verità è che, a un certo punto della vita, mi sono imbattuto negli albi per bambini. Ma crescere in Svezia negli anni Sessanta è stato decisamente diverso dal farlo in Germania. Trasferirmi da Göteborg ad Amburgo all’età di sei anni ha rappresentato uno shock dal quale non mi sono ancora ripreso del tutto. A quel tempo (e non sono sicuro che poi sia così cambiata la percezione collettiva) la letteratura per l’infanzia svedese significava soprattutto un grande divertimento e la possibilità di essere presi sul serio, di essere considerati come persone, mentre quella tedesca era principalmente didattica, rivolta ad elargire insegnamenti. Naturalmente, preferisco la prima opzione.

Da «Dulcinea nel bosco stregato» (Beisler edizioni)

Come combina la scrittura con l’illustrazione? Cosa viene prima, una storia o un disegno che dà visibilità ai personaggi?
Mi risulta difficile, quasi impossibile rispondere, perché per me il disegno è anche scrittura e narrazione di per sé. Quando inizio un nuovo libro, di solito prendo un foglio di carta molto grande e appunto alcune idee e piccoli schizzi, finché non ho qualcosa di concreto su cui lavorare.
Come illustratore, il suo segno è essenziale, minimal. Si ispira a qualche artista in particolare o alla gloriosa storia del design nordico?
Il primo libro che ricordo era in realtà un fumetto dello svedese Olle Eksell (1918-2007, figura leggendaria nel campo del graphic design): mi ha certamente influenzato. Inoltre, a casa vivevo in mezzo a un arredamento che sfoggiava solo mobili moderni scandinavi. Mi piacevano moltissimo e ancora oggi li preferisco ad altri stili.

«Desperado» è scaturito da una passione speciale per il western (film, fumetti, cartoni animati)? Può raccontarci come è nato il libro e qual è stato il suo background immaginativo?
Ho sempre voluto realizzare un western. Ho un vero debole per i film western di serie B, quelli in bianco e nero degli anni ’30 e ’40. Quel che mi attrae è proprio la banalità e prevedibilità delle storie che vi sono raccontate. Mi piacciono i cattivi con i loro vestiti neri e i baffetti e anche i cowboy che cantano. E, ovviamente, adoro Laurel e Hardy in Way Out West. Circa dieci anni fa, il mio editore francese mi chiese di realizzare un poster. Mi venne subito in mente qualcosa che già somigliava un po’ alla copertina di Desperado. Quindi, posso dire che avevo dentro di me una copertina per la storia, ma per qualche motivo non riuscivo a inventare una vicenda originale e innovativa. Fino a quando ho capito che «originale» e «innovativo» non sono le parole giuste per definire ciò che cerco in un western. Così ho prelevato tutti i cliché che riuscivo a trovare e li ho mescolati insieme: alla fine, ho scritto quel libro in meno di un’ora. Veramente, il disegno ha richiesto un po’ più di tempo…

Lola, Camillo, Bob, Dulcinea: i suoi personaggi si concentrano sul lato comico dell’esistenza. Crede con Bergson che ridere sia un antidoto alla rigidità, una promessa di elasticità mentale (e anche sociale) per i bambini?
Sì. Quando i miei figli erano piuttosto piccoli, guardavamo insieme Il grande dittatore di Chaplin. Andavano pazzi per quel film. E poi ho notato che ogni volta che incappavano in una foto di Hitler o Mussolini, su un giornale, un libro o in tv, non ne rimanevano affatto colpiti. Ridacchiavano, cogliendo la ridicolaggine delle uniformi e la pomposità delle pose. Era, secondo me, una buona reazione che spingeva a mantenere le distanze. A pensarci bene, anche i cattivi di Desperado sono ridicoli e pomposi, così come la strega malvagia in Dulcinea.

Cosa si sente di rispondere a chi crede che la letteratura per ragazzi non possa competere con quella per adulti?
«Devi scrivere per i bambini nello stesso modo in cui lo fai per gli adulti. Solo meglio» (Maksim Gorky).