Geert Lovink è uno dei più sofisticati interpreti dei social network e della cultura di rete. Raccoglie le sue riflessioni in volumi che descrivono la dinamica dei media digitali. Una specie di ricognizione ragionata, una mappa per orientarci nel dibattito europeo e occidentale sulle conseguenze di soluzioni politiche, tecniche e pratiche ai problemi delle piattaforme. Vi si trovano analisi approfondite e appassionate delle mosse di creatori e utenti dei dispositivi digitali da cui siamo dipendenti. I suoi testi sono una bussola nei più controversi percorsi di resistenza politica e di elaborazione di sistemi alternativi all’estrazione di dati dalle nostre vite mercificate.


Geert Lovink
Abbiamo bisogno di modestia digitale. Una riprogettazione radicale di Internet è una sfida globale che può realizzarsi in tempi brevi

L’ultimo lavoro, Le paludi della piattaforma (Nero, pp. 217, euro 22), è un prezioso contributo al dibattito sull’oppressione delle piattaforme, nel quale argomenta il dissenso a partire dalla sua storica cultura della rete. Lovink, fra l’altro, contesta anche le prassi consolidate della critica ai media digitali, sparigliando le carte e cercando con originalità e coraggio di aprire l’impervia strada per superare lo strapotere delle Big Tech, evitando le posizioni prevedibili e spuntate, provenienti dall’iperuranio oligarchico di teorici aristocratici.

Nel suo libro richiama la necessità di azione contro il lavoro gratuito degli utenti dipendenti dalle piattaforme della Silicon Valley e contro le vittime dell’ultima teoria cospirazionista. Come possiamo intervenire collettivamente, considerando che il soggetto soggiogato non sa di esserlo? E come si può diventare antagonisti nell’epoca della disillusione?
Dobbiamo evitare di giudicare dall’esterno e addestrarci all’immaginazione critica della tecnologia sociale: cosa significa il fatto che TikTok abbia un miliardo e mezzo di utenti? Malgrado il nostro disgusto, dobbiamo stare con le masse sociali. Come mai sono cresciute così intensamente in breve tempo? Paradossalmente, possiamo agire solo ammettendo che siamo stati catturati anche noi nelle gabbie dorate. La via d’uscita è diventare di nuovo sociali, recuperando lo stato anonimo e collettivo nelle masse virtuali e reali. Ma ci sono altri metodi? In Italia Franco Berardi e Tiziana Terranova si sono assunti il compito di teorizzare la condizione tecno-sociale – e infatti tutto il mondo li legge.

Oggi il sociale è sentito come un farmaco contro il veleno dei social media, per dirla con Bernard Stiegler. La spinta comune per superare stress, disperazione e solitudine c’è – anche se solo per un momento. Sebbene questo possa suonare liberatorio, convive con la «quantificazione del sociale’» Classifiche e valutazioni sono reali e hanno effetti psicologici negativi. Il messaggio è: competi con chi ti sta vicino, non manifestare empatia o solidarietà e mantieni la distanza. Queste sono le barriere che ci impediscono di stare insieme. Aggiorniamo il nostro stato e osserviamo quello che fanno gli altri.

Lei manifesta l’esigenza di un’antropologia dell’emergenza per riflettere sulle reti oltre i modelli tassonomici alternativi di controllo e decentralizzazione. Come compiere questa mossa relazionale senza essere risucchiati dalla vecchia retorica antagonista?
Mi concentro sulla sfida del design nel creare strumenti di supporto per i tempi difficili futuri. Finora i social media sono stati orientati alla pubblicità, non alle funzioni utili. L’Italia ha la possibilità di coinvolgere teorici, hacker e designer per dedicarsi a questo scopo. Dobbiamo addomesticare le reti digitali in modo che lavorino per noi, non il contrario. Non sono un sostenitore del romanticismo europeo sull’offline. Un weekend di yoga in campagna senza telefono non è la soluzione (anche se sono favorevole a bandire il cellulare dalle scuole).

Quando critichiamo la Silicon Valley vagheggiamo di gettare via i dispositivi che creano dipendenza, per riprenderci la nostra vita. Ma è solo un pio desiderio, un sogno. Il telefono ci aiuta a coordinare la nostra vita multitasking ed è ideale per sfruttare i tempi morti. Dovremmo realizzare app non basate sull’aggiornamento. Le notifiche vanno abbandonate. Gli strumenti sono fatti per assisterci, non per disturbarci e distrarci. Si potrebbe cominciare con il mettere al bando il modello di business fondato sulla cattura dell’attenzione.

Pur considerando gli effetti politici dell’infrastruttura, l’architettura tecnica non esaurisce il nostro posizionamento politico. Si può evitare di affidarci al soluzionismo tecnologico?
Abbiamo bisogno di modestia digitale. Una riprogettazione radicale di Internet è una sfida globale di media grandezza che può essere realizzata in tempi brevi, se confrontata con la crisi climatica, con quella migratoria o con la necessità abitativa e l’emergenza delle disuguaglianze sociali. La riprogettazione deve avvenire a livello locale, nazionale ed europeo. Dobbiamo agire in Italia, in Olanda, senza aspettare Bruxelles. I regolamenti europei arrivano troppo tardi, se si limitano ad affrontare i problemi già presenti. La regolazione va sostituita con la riprogettazione.

Nel suo volume, descrive la dipendenza, ma anche la noia che questi dispositivi inducono, oltre a discutere delle tattiche per l’opposizione politica. E se ci fossimo stancati del «binge watching» delle serie tv? Forse la resistenza è anche la resilienza nel riorganizzare le abitudini?
Secondo alcuni la noia è uno scudo protettivo contro l’intrusione mentale dall’esterno. A che punto l’esaurimento endemico conduce al collasso? Dov’è la soglia? È importante imparare dal dibattito scientifico sugli effetti dell’aumento di 1.5-2 gradi Celsius sull’atmosfera. Oltre quel limite si producono conseguenze imprevedibili. La stessa cosa può succedere nell’economia dell’attenzione. L’economia dei dati così interconnessa è una casa di carta. Prepariamoci all’implosione che non sarà l’esito delle regole europee.

Siamo consapevoli che startup e Big Tech sono fragili, come dimostra il crack della Silicon Valley Bank. Eppure siamo ancora convinti del loro potere nello sfruttare i dati delle persone, dopo averli oscuramente espropriati. Per quale motivo non possiamo bloccarli con regole, pratiche e la percezione delle loro debolezze?
Noi, i miliardi di persone online, siamo in una caverna platonica, ipnotizzati dalle ombre prodotte da app che hanno 2 o 3 anni. Queste startup sono il frutto di passati cicli finanziari. L’esempio di ChatGpt è straordinario. Gli investimenti in Intelligenza artificiale hanno raggiunto il picco nel 2022, siamo vicini al prossimo inverno dell’IA, ma le app spazzatura continuano ad affascinare gli utenti. È una situazione simile a quella dei social network come TikTok, Facebook, Instagram e Twitter, tutti in differenti situazioni, eppure accomunati dall’essere stagnanti e sottoposti all’instabilità della moda. Gli utenti comuni non sono stupidi, hanno capito che qualcosa non va. La macchina del marketing degli influencer è in affanno.

Non crede che la fase digitale che stiamo vivendo con la diffusione di deepfake, chatbot che mimano persone e con il conseguente aumento di inaffidabilità delle informazioni stia spingendo le persone verso la nostalgia per gli incontri in presenza?
Il reale e il virtuale non sono più separati ormai. L’attesa orgia post-covid non si è verificata. Siamo spinti da un’ansia all’altra: guerra, inflazione, costi energetici che aumentano i prezzi dei viaggi. Gli incontri reali sono il punto di arrivo, ma saranno inevitabilmente locali. Vedersi di persona ha delle conseguenze, mentre le informazioni virtuali tendono a restare «interessanti». Se aggiungiamo anche il groviglio umido dei nostri flussi desideranti, avremo un’idea del perché le forze sociali che vogliono implementare il cambiamento gentilmente rifiutano gli inviti Zoom/Teams per le loro iniziative.