Da 10000 metri Lake Powell appare come un intarsio di cobalto nel cretto ocra e amaranto del deserto. Il suo scintillío blu si dirama verso nordest dal punto dove si toccano Utah, Arizona e la Navajo Nation – dall’ostruzione cioè della grande diga Glen Canyon. Battezzato così per Wesley Powell, il primo bianco a scendere le acque del Colorado, il lago in realtà è un invaso prodotto dall’occlusione della Glen Canyon Dam. Da lì l’acqua risale per oltre 200 km, riempiendo ogni crepa e anfratto nel dedalo del canyon. Visto dagli aerei di passaggio, ha scritto qualcuno, il terzo fiume d’America assomiglia alla sagoma di un serpente che ha inghiottito un porcospino.

Nel 1869 John Wesley Powell, colonnello dell’esercito nordista che aveva perso un braccio nella battaglia di Shiloh, imbarcò un equipaggio di otto uomini su quattro barche di legno a Green River Station in Wyoming, sull’omonimo affluente del Colorado River, l’inizio di una navigazione di 1600 km su un fiume fino ad allora considerato inesplorabile.

LO SCOPO PRINCIPALE della missione era di stimare il potenziale del fiume per l’irrigazione delle regioni aride da poco strappate a Indiani e Messicani. Ma l’animo di agrimensore e perito geologo di Powell era stato folgorato dalla bellezza strepitosa che aveva sotto gli occhi. Quando dopo cinque mesi di esplorazione e precaria navigazione nelle rapide, la spedizione sbucò dall’estremità meridionale del Grand Canyon, i sopravvissuti erano cinque, ognuno con racconti di luoghi fantastici mai prima visti dall’uomo bianco.

Nel suo rapporto al Congresso (Report on the arid regions) Powell scrisse della «musica delle acque»: «dolci colline di musica nascono dai suoi ruscelli, e prati di musica mormorano nei ghirigori fra le sue rocce. E’ una sinfonia di molteplici melodie». Con lungimiranza quasi chiaroveggente, nella sua relazione metteva inoltre in guardia sul pericolo di uno sviluppo insostenibile. «Non c’è acqua a sufficienza per irrigare tutta la terra irrigabile», avvertiva già nel 1878.

Il suo consiglio venne ignorato e Powell accusato di disfattismo. La diatriba prefigurava 150 anni di contenziosi fra paladini dello sviluppo e ambientalisti, i primi determinati a sfruttare l’acqua del fiume, i secondi a proteggerne l’impareggiabile bellezza naturale.

IL FIUME SCENDE dagli altipiani pratosi del Wyoming nel bacino del Wind River, dalla montagne rocciose raccoglie le acque dei nevi e ghiacciai e le porta giù, attraverso la terra rossa dello Utah e la voragine del Grand Canyon. Poi per 1000 chilometri di deserto trascina con sé il limo rossastro fino al vasto delta sul mare di Cortez, uno dei grandi ecosistemi salmastri del pianeta, habitat di giaguari e capodogli, ogni genere di volatile e occasionali capanne di indiani Cocopah – un Nilo delle Americhe. Almeno questo era. Da decenni il maestoso fiume lungo 2333 km, si estingue nelle sabbie – un fantasma sotterraneo scorre ormai solo nei ricordi tramandati e nelle striature dei vegetazione sulla sponda sabbiosa del Golfo di California.

NEL RADIOSO SECOLO americano la crescita – demografica ed economica – è stata vangelo incontrastato del West. «Lo sviluppo della metà occidentale del nostro paese mediante l’irrigazione è fondamentale per il compimento della sua promessa illimitata», scriveva nel 1906 Teddy Roosevelt. All’uopo, il presidente aveva istituito un apposito dicastero: il bureau of reclamation – un ministero per la «bonifica» idrica.

Il grande corso d’acqua che gli indiani chiamavano Lapay’ha («acqua rossa») e che ha scavato il Grand Canyon, è stato trasformato in conduttura idraulica per l’agribusiness e le metropoli sorte nel deserto – Las Vegas, Phoenix, Los Angeles… La prima diga eretta sul fiume fu la Derby Dam, inaugurata in Nevada nel 1903. Oggi 49 sbarramenti di cemento imbrigliano il Colorado rendendo possibile l’irrigazione di 6 milioni di ettari e una produzione idroelettrica sufficiente all’approvvigionamento di 35 milioni di persone in 7 stati.

LE DIGHE SONO MASSICCI monumenti all’ingegno che ha piegato la natura ai primi fini. Particolarmente celebri quelle erette negli anni ’30, opere pubbliche del New Deal che trascinava il paese fuori dai tempi cupi della grande depressione. Regina fra tutte Hoover Dam decantata dai cinegiornali e dalle ballate folk, come «Chartres dell’era meccanica»: 379 metri di campata per 221 metri di altezza, dietro di essa nasce Lake Mead, luogo di riposo, si dice, di più di una vittima della mafia che contemporaneamente costruiva la vicina Las Vegas.

A seconda dei punti di vista si tratta di miracoli di ingegneria civile o prodotti della mentalità, come ha scritto James Howard Kunstler in Geography of Nowhere, di «una nazione in cui l’opportunità per il profitto personale non conosceva alcun limite naturale e dove scatenati impulsi economici furono liberi come non mai di degradare natura e cultura».

L’ULTIMA grande diga fu la Glen Canyon, inaugurata nel 1963, in un altro momento topico, l’ennesimo albore americano ad invocare i miti fondativi: la New Frontier di Kennedy. E dietro la diga si allargò l’ennesimo aneurisma sul fiume. «Battezzato in onore di Wesley Powell (il lago) in realtà era un affronto alla sua memoria», scrisse Edward Abbey nel suo fondamentale Desert Solitaire.

Qualche anno dopo Abbey (un ex ranger dei parchi nazionali) avrebbe infuso il suo misticismo anarco ambientalista ne I Sabotatori (The Moneywrench Gang), divenuto la bibbia degli «eco terroristi» – una generazione di militanti disposti a tutto per fermare dighe e ciminiere. Nel romanzo una banda di attivisti e poeti guidati dal reduce George Hayduke si improvvisano combattenti di una guerra partigiana e dinamitarda per proteggere la bellezza incontaminata del fiume dall’avidità di «progresso» e corporation.

Il Colorado fu fronte vivo di quelle battaglie e nella realtà Glen Canyon rimane simbolo della sconfitta degli ambientalisti. In Desert Solitaire Abbey, fra gli ultimi a visitare le meraviglie che sarebbero state sommerse dalle acque dietro la diga, afferma con amara rassegnazione che creare quel lago artificiale equivarrà a «ricoprire di fango il Taj Mahal».

MA ORA, VENT’ANNI di siccità stanno regalando a Hayduke e i suoi un’inattesa rivincita. Un ciclo arido che somiglia sempre più a una modifica climatica permanente, a una «millennium drought», che sembra destinata a confermare i timori e le avvertenze di John Wesley Powell. Nei primi due decenni del 2000 la portata del fiume è diminuita del 20%. I «laghi» Mead e Powell hanno raggiunto livelli di guardia, a una manciata di metri appena dal diventare «dead pool» (con un volume d’acqua insufficiente a generare elettricità). Sulle pareti del Glen Canyon vistosi cerchi bianchi segnano l’inesorabile discesa dell’acqua (-40%) mentre riemergono sui fondali, detriti, barche affondate e tracce archeologiche degli insediamenti rupestri delle originarie tribù «Pueblo». Quei popoli misteriosamente scomparsi attorno al 1200 si sanno oggi spazzati via da un’altra grande siccità – infausto presagio del presente.

Ma col ritrarsi delle acque sta avvenendo anche qualcosa di miracoloso – la rivelazione dopo mezzo secolo, dei paesaggi decantati da Abbey e dal suo Hayduke. In questa terra il Colorado solca lo slickrock, gli archi, le grotte e i cunicoli scavati nell’arenaria levigata dai venti. È come una Monument Valley che riemerge dai flutti – una mastodontica Atlantide rossa, compresa la leggendaria «Cathedral in the Desert», un canyon rimasto inaccessibile per sessant’anni la cui volta e le spire dolomitiche sono squarciate da archi naturali. Qui sono tornate a scorrere le cascate che, precipitando sul fondo, suonano la musica delle acque.