Nel complesso panorama delle forze progressiste latinoamericane, il presidente colombiano Gustavo Petro va decisamente contro-corrente. Se in altri paesi – e più di ogni altro in Cile – il centro-sinistra al governo finisce spesso e volentieri per rinunciare alla propria agenda politica attraverso ripetute concessioni alla destra, o almeno per logorarsi in estenuanti negoziati all’interno del Congresso, il governo Petro va invece all’attacco a testa bassa.

STANCO DEGLI OSTACOLI posti a suoi progetti di riforma, il presidente colombiano ha infatti annunciato con un tweet la fine della coalizione con i partiti tradizionali alleati – il Partido de la U (cioè dell’Unión por la Gente), il Partido conservador e il Partido liberal -, chiedendo la rinuncia di tutti i suoi ministri e finendo per cambiarne sette, tra cui figure chiave come il ministro delle Finanze José Antonio Ocampo e la ministra della Sanità Carolina Corcho, sostituiti rispettivamente dall’ex professore universitario Ricardo Bonilla e dal cardiochirurgo Guillermo Alfonso Jaramillo.
L’opposizione delle forze oligarchiche alla sua ambiziosa riforma del sistema sanitario ha dimostrato infatti, ha dichiarato Petro, che «l’invito a un patto sociale per il cambiamento è stato rifiutato». «Quanti si sono arricchiti con l’uso di denaro pubblico non si sono resi conto che la società rivendica i suoi diritti e che questo implica dialogo e accordi», ha aggiunto il presidente, evidenziando come «malgrado il voto maggioritario espresso dalle urne a favore del cambiamento, si cerchi di impedirlo con la minaccia e il settarismo». E denunciando, durante una cerimonia per la consegna di terre nel dipartimento del Valle del Cauca, l’incapacità del Congresso di approvare persino «alcuni semplici e pacifici articoli che avrebbero permesso una migliore democratizzazione della terra».

In realtà, quella di Petro è stata soprattutto una prova di forza, come lo è stato il suo discorso del primo maggio dal balcone del palazzo presidenziale, quando, di fronte a una folla plaudente, si è scagliato contro le élite accusandole di ostacolare le sue riforme sociali: quella agraria per dare terre fertili ai contadini (combattendo per questa via anche il narcotraffico); quella sanitaria per garantire anche ai più poveri qualità e sicurezza delle cure; quella del lavoro per combattere la precarietà; quella previdenziale per assicurare la pensione a chi ne è privo.

UNA ROTTURA completa con le forze conservatrici, rappresentate in particolare dagli ex presidenti Gaviria e Santos, non conviene però a nessuno: né al governo, bisognoso di appoggi e alleanze, né alla destra, interessata a mantenere una relativa stabilità di fronte all’incertezza dilagante a livello globale e timorosa di una nuova rivolta sociale come quella che ha incendiato il paese nel 2021.
Ma con il suo strappo Petro ha voluto mandare un segnale preciso: che, cioè, non si lascerà sfiancare dalle opposizioni – seguendo, per esempio, la triste parabola di Gabriel Boric – e, che, piuttosto di far passare riforme azzoppate, preferirà accettare che vengano respinte, addossando così tutta la responsabilità alle destre.

DEL RESTO, AVENDO già segnato punti importanti – dall’aumento del salario minimo al varo di una riforma tributaria a favore dei ceti sociali più poveri, fino a qualche passo, ancorché timido, in direzione della riforma agraria -, Petro ha tutte le carte in regola per riuscire a canalizzare qualsiasi scontento popolare non contro il proprio governo (come, di nuovo, è avvenuto in Cile), ma contro quanti impediscono il cambiamento.
Esattamente quello che ha lasciato intendere nel suo discorso del primo maggio: «La grande rivoluzione in marcia – ha detto – richiede una classe lavoratrice che si mobiliti, che lotti, che si organizzi, che si unisca. Questo governo vuole un’alleanza con il popolo lavoratore, un’alleanza profonda, indistruttibile».