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Colm Tóibín, «tra me e i silenzi di Thomas Mann»

Colm Tóibín, «tra me e i silenzi di Thomas Mann»Thomas Mann con la moglie Katia e la figlia Erika

Interviste letterarie Lo scrittore irlandese, che aveva già dedicato un romanzo alla vita di Henry James, racconta i passaggi del suo confronto con l’autore della «Montagna magica» e con la severità concettuale delle sue opere. L'autore sarà protagonista di un incontro al «Festivaletteratura» di Mantova, sabato 9 settembre 2023

Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 settembre 2023

La narrativa di Colm Tóibín ha la singolare capacità di procedere con una certa lievità, come seguisse liberi percorsi d’invenzione, anche quando imbocca sentieri affollati di fatti storici e elementi biografici: avviene soprattutto là dove l’autore irlandese si confronta con alcuni grandi predecessori. Quando nel 2004 uscì The Master, romanzo centrato sugli anni decisivi nell’esistenza di Henry James, John Updike celebrò il complesso lavoro di ricostruzione che era alla base di quel testo come «un prodigio di ricerche portate con leggerezza», e descrisse il romanzo come un felice esempio di «finzione che segue da vicino i fatti».

Nel libro più recente, dedicato a Thomas Mann, Il mago (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, pp. VI – 506, € 24,00) Tóibín affina ulteriormente la sua capacità di trovare un equilibrio tra la finzione romanzesca e la realtà storica: in queste pagine non si limita, come nel caso del Maestro, a rappresentare una tranche de vie costituita di pochi, pur determinanti anni, ma procede con lineare diacronia lungo l’intera esistenza di Thomas Mann, dall’infanzia a Lubecca agli anni trascorsi a Monaco, fino all’esilio negli Stati Uniti, intrecciando i fatti biografici sia con episodi e dialoghi provenienti dalla sua empatica immaginazione sia con diversi motivi presenti nell’opera di Mann. Ne deriva un complesso tessuto intertestuale che, senza mai abdicare alla verosimiglianza e senza venire meno alla plausibilità storica, offre di Thomas Mann un ritratto ambivalente, permettendo al lettore di sperimentare una familiarità con la figura dello scrittore tedesco che gli sarebbe stata preclusa da una semplice biografia.

La stesura del «Mago» si basa sulla lettura di biografie e saggi critici su Thomas Mann, ma intrattiene un dialogo soprattutto con le sue opere di narrativa: quali le sono state più utili alla stesura del romanzo?
Tra quelle più importanti, per me, metterei I Buddenbrook, e Morte a Venezia; fra l’altro, in un libro di memorie, la moglie di Thomas Mann ricorda alcuni episodi di un viaggio a Venezia che poi sono ripresi nel racconto. Tra le opere più tarde il Doctor Faustus si è rivelato molto prezioso, per le tracce che l’autore vi ha seminato della sua famiglia, della madre, delle sorelle. A volte mi è stato anche possibile introdurre nel romanzo qualche motivo o qualche dettaglio preso dai testi di Mann: avevo per esempio molte immagini tratte dalla Montagna magica che poi non ho usato perché il collegamento appariva troppo forzato, poco organico al mio intento principale, che era quello di creare un’illusione: le fonti sono utili per creare un’impalcatura, ma poi cessano di avere importanza, o quantomeno non dovrebbero essere notate. Si trattava, per me, di fare in modo che il lettore si sentisse immerso in una forma di intima condivisione degli eventi, attraverso un racconto in terza persona, sempre dalla prospettiva del protagonista.

L’illusione che lei intendeva creare è affidata principalmente alla scrittura dei dialoghi più intimi di Thomas Mann: come è arrivato a renderli credibili?
Mi sono anzitutto posto il problema di come rendere sulla pagina le conversazioni che si tennero in una lingua straniera di cento anni fa, con tutte le particolarità sintattiche che il tedesco presenta. Nella maggior parte dei casi, ho preso a modello l’inglese parlato negli anni Venti, che ha venature sagaci e un ritmo molto veloce. Ma in altre pagine mi sono mosso in modo completamente diverso: per esempio, quando Thomas Mann si trova a Stoccolma e viene raggiunto dalla notizia che suo figlio Klaus si è suicidato nel Sud della Francia, per lui, per la moglie e la figlia che lo stavano accompagnando sarebbe stato ovvio andare al funerale; ma la scelta fu di non andare. Per rendere questa decisione, ho rallentato il ritmo della narrazione, così che non sembrasse una scelta facile o veloce, e anzi non sembrasse nemmeno tanto una decisione quanto l’essere trascinati dall’inerzia, come se andassero alla deriva. Thomas Mann, sua moglie Katia e sua figlia Erika si allontanarono invece di unirsi nel dolore, diventarono reciprocamente estranei: il come scriverne mi ha richiesto molta riflessione e altrettanto lavoro. Lì il silenzio si fa più importante della parola, diventa decisivo ciò che i personaggi non dicono, quello che sono sul punto di esprimere ma poi tacciono. Via via che tornavo a quanto avevo scritto mi sembrava importante risolvermi a tagliare: alla fin fine bisogna sempre ridurre, ridurre, ridurre.

I silenzi e le titubanze di Thomas Mann sono un tratto fondamentale della caratterizzazione che lei ne ha dato; inoltre, spesso il suo personaggio sembra messo in ombra dalle figure che lo circondano, tutti sembrano più brillanti di lui.
Sì, credo che la mia chiave sia stata proprio l’idea che lui sia un fantasma, tanto nel romanzo che nella sua stessa vita. Dire che ciò che conta per lui si svolge nello studio è fin troppo facile: ciò che mi interessa è che non appena lascia la propria scrivania per mischiarsi agli altri, quasi non parla, resta a osservare, e sia la moglie che i figli sistematicamente dicono qualcosa di più interessante di quanto non ha da dire lui, facendolo sentire escluso. Non era tanto questione di ritrarlo come un uomo senza qualità, quanto piuttosto di farne una figura non del tutto presente, uno spettatore silenzioso. È una figura quasi vuota, saturata dai grandi fatti storici che accompagnarono la sua vita, i due conflitti mondiali e in mezzo l’ascesa di Hitler, la guerra fredda, eventi che visse in modo molto strano e intenso. Mi sembrava essenziale al romanzo che figurasse come una persona vigile ma emotivamente quasi assente.

Prima di dedicarsi a Thomas Mann lei aveva già scritto «Il maestro», che ha al centro la figura di Henry James. Cosa l’ha portata a concentrarsi in particolare su questi due autori?
È stato come venire trascinato in una sorta di deriva, non ho seguito una strategia deliberata. Ho letto entrambi gli autori verso la fine della mia adolescenza, un periodo della vita in cui ciò che si legge ha una importanza decisiva. Negli anni Settanta l’arte della biografia non era ancora così sviluppata e si sapeva molto meno sulle loro vite. Per quanto riguarda Thomas Mann, sono state essenziali la pubblicazione dei diari e del libro di memorie della moglie Katia, mentre nel caso di Henry James l’uscita di molte lettere che la famiglia, in particolare i suoi due nipoti, avevano preferito censurare. Verso la fine del secolo ci si presentò un’immagine completamente nuova dei due autori e a venire a galla più di ogni altra cosa fu la loro segreta vita omoerotica. Dal momento che sono gay e sono cresciuto in una società repressiva, mi interessava capire come entrambi avessero vissuto questa loro inclinazione, come essa aveva alimentato il loro talento e il modo in cui aveva reso le loro esistenze particolarmente difficili. Henry James riteneva che per un romanziere fossero necessarie tre cose: drammatizzare, drammatizzare, e ancora drammatizzare. Sia nel suo caso che in quello di Thomas Mann, tra la loro vita intima e quella pubblica si consuma uno scarto drammatico, che si estende alla loro famiglia e alla cerchia più ristretta degli amici. E questo me li ha resi particolarmente interessanti.

Le è mai successo che l’ombra dello scrittore al quale si stava dedicando si facesse tanto ingombrante da influenzare lo stile della sua scrittura, rendendole necessario ritrovare un’opportuna distanza?
Nel romanzo dedicato a Thomas Mann questo non poteva avvenire a causa della distanza linguistica e anche perché non ho lavorato in alcun modo sul suo stile. Con James invece non so: il suo stile è così strano, così personale e così elaborato che non credo mi abbia contagiato. Mi piacerebbe, ma non lo credo. Di entrambi questi autori è stato soprattutto importante, per me, vedere come pongono al centro dei loro romanzi la coscienza di un singolo personaggio: la capacità di introspezione che Mann riversa nella figura di Leverkühn nel Doctor Faustus, per esempio; oppure, in Henry James, il personaggio di Isabel Archer in Ritratto di Signora. Questa enorme capacità di concentrazione sulla psiche di una figura romanzesca è stata molto importante per la mia formazione di scrittore.

In alcuni suoi testi, per esempio nel romanzo «Brooklyn», lei ha affrontato vicende legate all’emigrazione. E una parte consistente del «Mago» riguarda gli anni trascorsi da Thomas Mann negli Stati Uniti. Sebbene le situazioni che lei descrive siano molto diverse, crede sia possibile trovare tratti comuni a tutte le esperienze dei profughi?
Credo di sì. A me interessa l’intensità che la scrittura può trovare nella drammatizzazione di ciò che accade quando si viene sbalzati fuori dal proprio ambito. Nel caso di Mann questo avviene non soltanto nel 1938, quando va esule negli Stati Uniti, ma anche prima, quando perde Lubecca. Dalla città in cui è radicato e conosciuto va a Monaco e sperimenta l’anonimato: lì nessuno sa niente della sua famiglia, e anche perciò la dimensione della casa diventa più importante dello spazio urbano. È la premessa perché prenda forma un romanzo centrato sugli interni domestici. In Brooklyn, la classe sociale e la nazionalità sono diverse, e così pure il momento storico, ma l’idea è la stessa: portare qualcuno fuori dall’ambiente a cui appartiene, e lavorare così più intensamente alla rappresentazione della sua coscienza. Sarebbe quasi inimmaginabile per me scrivere di qualcuno che vive nel luogo in cui è nato.

Quale aspetto le è stato più difficile da rendere quando ha cominciato a scrivere su Thomas Mann?
Direi che c’è una valenza concettuale, nel suo lavoro, per esempio nei suoi scritti saggistici, alla quale non mi è stato possibile dare una rappresentazione nel romanzo. Per certi versi penso che il mio libro su Thomas Mann sia più leggero di quanto dovrebbe: è centrato sulla sua vita familiare molto più che su quella intellettuale. Ogni volta che ho cercato di scrivere sul suo rapporto con Wagner, per esempio, o più in generale sul suo debito con l’intera tradizione culturale tedesca, ho dovuto constatare che la forma del romanzo a cui stavo lavorando non si prestava a questo genere di esplorazione. Forse, un altro scrittore, avvicinando l’uomo erudito e la sua relazione con la cultura del tempo, rappresentandolo nella sua biblioteca piuttosto che in famiglia, potrebbe trovare questi aspetti più interessanti e degni di venire rielaborati. Inizialmente mi interessava concentrarmi soprattutto su alcuni anni trascorsi da Mann in California, quelli che coincidono con la stesura del Doctor Faustus. Ma mi resi subito conto di quanto sarebbe stato problematico raccontare il resto della sua vita attraverso flashback, perché non sarei riuscito a dare il senso di quanto fossero inaspettati gli eventi di quegli anni. La gente pensava per esempio a Hitler come a un demagogo, non si era resa conto del fatto che sarebbe arrivato al potere. Quindi ho ritenuto necessario articolare il romanzo usando la scansione cronologica che avrebbe adottato un biografo, secondo un ordine lineare. Vale la pena ricordare che ho lavorato al libro nel momento in cui Donald Trump veniva eletto, e chiunque abbia vissuto quel momento in America ha sperimentato quanto esso fosse inatteso, e come ogni volta l’ascesa al potere di un dittatore colga di sorpresa.

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