«Ho conosciuto Bruce solo nell’ultimo decennio della sua vita. Era immensamente stimolante per la sua ricchezza delle ossessioni e per il disprezzo delle convenzioni. Non smetteva mai di parlare e talvolta mi telefonava all’improvviso, raccontandomi nuove storie. Il Premio Chatwin è un degno ricordo di un uomo insostituibile».

Così lo scrittore Colin Thubron rammenta la figura dell’iconografico connazionale, a cui è dedicata la storica manifestazione sulla letteratura di viaggio andata in scena lo scorso novembre presso il comune della Spezia. L’evento culturale, unico al mondo a rammentare la figura dell’autore inglese grazie all’esclusività garantita dalla vedova Elizabeth Chatwin, ha premiato nella categoria «Viaggi di carta» come miglior libro del 2022 il testo Tra Russia e Cina: Lungo il fiume Amur, edito dalla editrice Ponte alle Grazie e realizzato proprio da Thubron. Il saggista e romanziere nato a Londra nel 1939, coevo di Chatwin, Paul Theroux, Jonathan Raban e Redmond O’Hanlon, è considerato il più importante scrittore di viaggio esistente grazie ad una lunga carriera letteraria apprezzata sia dal pubblico che dalla critica, come testimoniano lo stuolo di premi che si è aggiudicato, tra cui Hawthornden Prize, Thomas Cook Travel Book e Companion of Literature consegnatogli dalla Royal Society of Literature di cui è stato anche presidente.

Thubron si è reso volentieri disponibile a conversare con Alias: ascoltarne i racconti significa incontrare un gentiluomo inglese del Novecento cresciuto nella filiera secolare della lettaratura e della poesia britannica, contesto che lo ha fatto innamorare della parola sin da bambino. È da sempre un autore fedele sia alla sua scrittura che alla sincerità nei confronti del pubblico che lo segue, al punto tale da peregrinare a volte in luoghi pericolosi. Non è un caso che negli anni Ottanta abbia rischiato l’arresto da parte del KGB e che nel 2019, durante l’ottantesimo anno di vita abbia affrontato in solitaria, come sempre, un viaggio lungo il fiume Amur al confine tra Russia e Cina. Thubron è anche osservatore attento della quotidianità degli strati popolari e dei loro rapporti di forza con il potere. Il tutto, con in mano il fedele taccuino di sempre.

La tua fanciullezza ha inciso in qualche modo nell’essere uno scrittore da adulto?
Ho trascorso l’infanzia in una squallida e grigia Gran Bretagna del dopoguerra, ma per fortuna la mia famiglia viveva in campagna, in una casa con un giardino da sogno. Mia madre era una discendente del primo poeta laureato inglese, John Dryden, e consideravo questa cosa davvero speciale. Lei pensava che ne avessi ereditato il talento, il che era una sciocchezza (era un brillante critico e autore satirico, e io non ho niente di tutto ciò). Nel frattempo, all’età di sette anni, immaginavo di fare lo scrittore.

In gioventù ti sei diviso tra l’Eton College e le esperienze lavorative nell’editoria..
A Eton ero uno studente poco brillante, tranne che in letteratura inglese. All’età di diciannove anni ho iniziato a lavorare nell’editoria. È accaduto nella stessa settimana in cui la mia unica sorella rimase uccisa da una valanga, mentre sciava… da un giorno all’altro sono cresciuto sia nel dolore che nell’entusiasmo generato dalla vita a Londra. Dopo quattro anni nell’editoria la voglia di staccarsi da quel mondo è diventata insopportabile. Ho realizzato due documentari amatoriali in Marocco e in Giappone, che vennero trasmessi in televisione dalla BBC. Furono momenti inebrianti, ma rimanevo comunque fermo nell’idea di essere uno scrittore.

In che modo la capitale siriana ti ha segnato, portandoti a scrivere «Mirror to Damascus»?
Sono stato conquistato dal fascino di una città che non capivo affatto.
Avevo visitato Damasco brevemente nel 1963 per la prima volta. Ricordo di aver camminato lungo vicoli con muri di argilla dove una porta poteva essere lasciata socchiusa, permettendomi di intravedere un cortile lastricato di marmo con alberi di limoni, forse, o una piscina con fontana: era una vita nascosta che desideravo ardentemente conoscere.
Molti britannici sentivano il fascino del deserto arabo, io invece rimasi incuriosito dalla vita delle città siriane: Aleppo (purtroppo ora in rovina), Homs devastata dalla guerra e Damasco (con la città vecchia ancora meravigliosamente intatta). Ero molto giovane e abbastanza spericolato. I miei sentimenti sorgevano da una romantica ignoranza. Decisi di stabilirmi a Damasco presso una famiglia araba che risiedeva lungo la biblica strada chiamata Straight Street. Pagavo un affitto equivalente ad un dollaro a settimana. Ben altre emozioni rammento dei miei libri successivi, in primis un senso di grande tristezza. Nel 1967 ero in Libano per scrivere il secondo libro The Hills of Adonis: A Quest in Lebanon, quando scoppiò la Guerra dei Sei Giorni tra Israele, Egitto, Giordania e Libano.. e la regione non fu più la stessa.

Parlando di emozioni «To a Mountain in Tibet» (edizione italiana «Verso la montagna sacra. Il monte Kailash. Un pellegrinaggio in Tibet» n.d.r.), è legato alla scomparsa di tua madre.
Si. La morte di mia madre non avrebbe dovuto essere uno shock, in quanto aveva novantasette anni. Ma non si è mai veramente preparati alla morte di qualcuno che hai amato profondamente. Il viaggio al Monte Kailash è stato una sorta di pellegrinaggio secolare. È una montagna sacra sia ai buddisti che agli indù. Quattro dei grandi fiumi dell’Asia, Gange, Indo, Brahmaputra e Sutlej, nascono attorno ai suoi fianchi. Su cui ho camminato fino a circa 5.700 metri di altitudine. Non ho avuto una grande epifania, ma questo viaggio è una pietra miliare della mia vita.

Urss e poi Russia, Siberia, Cina: scrivi di questi luoghi da decenni. Quale fu l’impatto iniziale?
Erano completamenti diversi dai miei viaggi in Medio Oriente, trattandosi di vaste regioni che durante gli anni della Guerra Fredda ero stato educato a considerare come nemiche. Per realizzare quei progetti avevo bisogno di imparare le lingue e di accettare che, per quanto avessi viaggiato e studiato, difficilmente avrei scalfito la loro superficie. Il primo viaggio nella Russia sovietica fu in macchina e venni seguito incessantemente dal KGB. Ho viaggiato in Cina subito dopo la morte di Mao Zedong. Ho incontrato un mondo di persone che ancora soffrivano, vittime e carnefici allo stesso modo, per le conseguenze della Rivoluzione Culturale, un’epoca in cui non esistevano nemmeno le auto private.

L’Amur è protagonista dell’ultimo libro «Tra Russia e Cina.» Cosa rappresenta quel corso d’acqua?
Il fiume Amur è il decimo più lungo del mondo ma pochi ne hanno sentito parlare: è il confine est tra Russia e Cina. Sorge tra le montagne della Mongolia in una regione selvaggia in cui l’accesso normalmente è vietato. Mentre viaggiavo dalla sorgente verso la foce con tre cavalieri mongoli, a causa delle forti piogge, lungo il percorso i cavalli furono presi dal panico e rotolarono nelle paludi. Ne sono uscito con una caviglia rotta e due costole fratturate, ma ero in un punto in cui non potevo tornare indietro e di conseguenza ho proseguito. L’Amur oggi è il confine tra Pechino e Mosca che esprimono sostegno politico reciproco. Ma in realtà le culture russa e cinese sono profondamente diverse. Sul terreno i russi, nel complesso, trovano i cinesi duri e freddi. I cinesi disprezzano sottilmente i russi. Dopo il crollo dell’economia russa, il commercio tra i due paesi al di là del fiume si è in gran parte prosciugato.