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Cofferati: «Marchionne uomo coraggioso ma con un modello industriale sbagliato»

Cofferati: «Marchionne uomo coraggioso ma con un modello industriale sbagliato»Sergio Cofferati – LaPresse

Intervista L’ex segretario Cgil: Marchionne era un grande manager ma ha ridimensionato gli spazi negoziali e alcuni diritti. Dopo i due referendum di Pomigliano e Mirafiori gli accordi non sono più stati sottoposti alla consultazione dei lavoratori

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 luglio 2018

Non è facile accostarsi alla scomparsa, improvvisa, drammatica, di un avversario, rispettato ma anche molto combattuto. Sergio Cofferati, ex segretario della Cgil oggi europarlamentare nel gruppo dei Socialisti e democratici, misura le parole. «In questo momento provo l’umana pietà per una persona che scompare giovane, nel pieno della sua vita professionale e familiare. Provo solidarietà che genera condoglianze per i suoi cari».

Per chi è stato un avversario delle scelte industriali e aziendali di Sergio Marchionne, è difficile districarsi fra tutto quello che viene raccontato in queste ore sui suoi successi di manager?

È difficile ma va fatto con franchezza. Marchionne è stato un grande manager, un uomo coraggioso, con il pregio di guardare al mondo e non ad ambiti ristretti. Ma è stato anche portatore di un modello industriale e di conseguenti relazioni che non ho mai condiviso. Perché non si sono concentrate sempre sull’innovazione del prodotto ma più spesso sul costo e sull’organizzazione. Il modello di competizione che ne è conseguito resta carico di incognite per il futuro. E nel frattempo ha ridimensionato drasticamente gli spazi negoziali e alcuni diritti dei lavoratori.

Non era l’indispensabile costo da pagare contro il merito di riuscire a salvare l’azienda morente?

No. Nel sistema industriale italiano di aziende in cattiva salute ce ne sono state tante, e tante per necessità o scelta hanno cambiato l’intero sistema organizzativo. Ma spesso i cambiamenti sono stati fatti rafforzando gli strumenti e utilizzando la solidarietà. Negli anni 70 e 80 è successo nelle grandi aziende del manifatturiero, nel vetro, nella ceramica, o nella siderurgia o della chimica. Sono state ridimensionate drasticamente ma agendo in quel modello di relazioni.

Ma la Fiat non è stata ridimensionata, anzi è diventata un gruppo italo-statunitense e il settimo gruppo automobilistico mondiale.

Ma rispetto all’occupazione e agli stabilimenti il ridimensionamento c’è stato.

Insomma lo scambio fra lavoro e meno diritti non è una strada inevitabile come viene spiegato in ogni vertenza?

No, si può fare diversamente. Anzi il riconoscimento dei diritti porta chi lavora anche ad accettare, nei momenti più drammatici, rinunce sul reddito o cambiamenti di organizzazione. Ripeto, ci sono esempi clamorosi negli anni 70 e 80.

Sulle relazioni industriali quello di Marchionne era un modello di negoziazione molto duro. Penso ai referendum di Pomigliano e Mirafiori nel 2011. Fino all’espulsione della Fiom dalle fabbriche. Dove tornò solo in forza di una sentenza della Corte costituzionale del 2013.

Quel modello ha portato come conseguenza la divisione dei sindacati e la privazione del diritto di voto per i lavoratori. Da quel momento gli accordi sottoscritti in Fiat non sono stati più sottoposti a una consultazione dei lavoratori. Perché l’azienda ha perseguito sistematicamente la divisione dei sindacati ma anche perché non esistono regole vincolanti in materia. A fronte di un cambiamento profondo del mercato del lavoro, alla sua maggiore articolazione, è indispensabile una legge sulla rappresentanza che contenga l’obbligo al voto per l’individuazione dei propri rappresentanti e per la validazione degli atti negoziali. Senza questo anche politiche rivendicative innovative, anche cambiamenti di organizzazione interna di impresa non avranno l’efficacia che potrebbero avere.

Quella stagione, quei due referendum furono un colpo duro per la Cgil, un sindacato già alle prese, come gli altri del resto, con la crisi della rappresentanza.

Sì, io non ero già più in Cgil ma quella è stata una fase molto difficile per la Fiom e per i sindacati in genere. Anche per quelli che non avevano la consapevolezza delle conseguenze. Oggi c’è stato un ripensamento collettivo sull’utilità del contratto e il contratto di categoria è stato rinnovato. E si è sancito il principio che la contrattazione articolata non è sostitutiva di quella nazionale, ma integrativa.

Anche nei rapporti esterni dell’azienda Marchionne cambiò passo e fece uscire Fiat da Confindustria. Oggi il presidente degli industriali riconosce che aveva ragione Marchionne.

Ma non se ne capisce il motivo. Anzi è sorprendente che Confindustria oggi apprezzi una decisione che ha messo in discussione l’esistenza stessa di Confindustria. In ogni caso quelle scelte non hanno fatto scuola: né la destrutturazione della rappresentanza sindacale d’impresa e quella dei lavoratori, né il tentativo di cancellazione degli strumenti di carattere generale, ovvero il contratto nazionale di lavoro. Il contratto dei metalmeccanici continua a vivere e Confindustria e Federmeccanica continuano a rappresentare la larga maggioranza del sistema delle imprese. E ad apprezzare nella forma e nella sostanza il contratto nazionale.

Quella rottura insomma non era un’anticipazione del futuro?

No. All’industria serve un contratto nazionale. La sua cancellazione a Fiat non portò danni perché sostanzialmente in Italia non c’è il settore dell’auto, c’è un solo produttore. Il valore del contratto nazionale non è solo per i lavoratori ma anche per i datori: quello di regolare la competizione fra le imprese impedendo la rincorsa ai costi più bassi.

C’è un dopo Marchionne?

Dipende da cosa vorranno fare i suoi successori. Vedremo il piano industriale che ad oggi non c’è ancora, e come decideranno di muoversi sul versante del modello di relazioni con i loro interlocutori. È presto per dirlo. Ma sono convinto che si possono affrontare situazioni drammatiche con strumenti e percorsi diversi da quelli che sono stati usati in Fiat, poi Fca, in quel momento.

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