Cobalto e sfruttamento, fuga cinese dal Congo
Internazionale

Cobalto e sfruttamento, fuga cinese dal Congo

Sacchi di cobalto in un mercato in Congo – Getty Images

Cina-Africa Vittime di aggressioni e rapimenti legati alle attività minerarie: l’ambasciata di Kinshasa ha invitato cittadini e aziende a evacuare

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 5 dicembre 2021

Qualche giorno fa un messaggio su Wechat inviato a tutti i membri della diaspora cinese in Repubblica Democratica del Congo (Rdc) ha incrinato più di qualche granitica certezza circa l’invincibilità e la tracotanza cinese in Africa.

L’ambasciata cinese a Kinshasa ha ordinato ai suoi cittadini e alle aziende presenti nelle province del Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri di evacuare il prima possibile la parte orientale del Paese per gravi preoccupazioni circa la sicurezza dei cittadini cinesi residenti in quei territori. Non è usuale, anzi è piuttosto raro, che la Cina ordini un’evacuazione generale, soprattutto da una zona in cui le imprese cinesi lavorano senza sosta per nutrire l’appetito della madrepatria di risorse minerarie, in particolare cobalto, rame e terre rare.

L’invito dell’ambasciata per chi vive nelle città dei territori di Bunia, Djugu, Beni, Rutshuru, Fizi, Uvira e Mwenga era di «partire immediatamente». A maggio il presidente congolese Felix Tshisekedi aveva dichiarato lo stato d’assedio nell’Ituri e nella vicina provincia del Nord Kivu per combattere i gruppi armati. La misura ha incluso anche la sostituzione di alti funzionari civili con esercito e ufficiali di polizia.

L’evacuazione cinese ha diverse letture possibili. La prima è che la situazione della sicurezza nella Rdc orientale è totalmente fuori controllo, sia per le autorità locali che per le forze multinazionali delle Nazioni Unite, la Monusco. Un’altra lettura riguarda proprio la presenza cinese in Congo: nemmeno Pechino è in grado di garantire la sicurezza all’organizzata e protetta diaspora, che in quei territori ha interessi economici enormi, considerati strategici da Pechino.

A novembre diversi cittadini cinesi sono stati aggrediti e rapiti nelle tre province congolesi, dove insiste la guerriglia di diversi gruppi armati: il mese scorso cinque cittadini cinesi sono stati rapiti da una miniera d’oro nel Sud Kivu, al confine con Ruanda, Burundi e Tanzania, mentre pochi giorni prima altri due erano stati uccisi e in 8 rapiti da miliziani del gruppo armato Codeco.

Questo solo negli ultimi 30 giorni. La crescente sfiducia tra le aziende cinesi e le comunità locali, che accusano da anni le prime di non rispettare le normative ambientali, sullo sfruttamento e l’inquinamento dei fiumi e sullo sfruttamento della manodopera locale, ha reso la diaspora cinese in Congo sempre più isolata, più esposta a rapimenti a scopo estorsivo, rapine a mano armata e grezze azioni di violenza volte spesso anche solo a mostrare i muscoli da parte dei gruppi armati, il tutto in un contesto dove le autorità locali hanno militarizzato un’area rendendola tuttavia sempre più insicura.

Evacuare le imprese che operano nel mercato dei minerali in Congo significa però mettere a rischio un segmento industriale enorme, con ripercussioni a livello globale, considerando l’attuale crisi dei semiconduttori.

La Rdc è infatti la più grande produttrice al mondo di cobalto, minerale fondamentale per l’industria (tra le migliaia di altre cose) di batterie al litio, e la Cina il più grande acquirente del mondo di questo minerale: dal Congo si esportano 100.000 tonnellate l’anno di cobalto (dalla Russia, seconda nella classifica globale, poco più di 6.000 tonnellate), dirette quasi tutte al porto di Shanghai al costo di 62.000 dollari a tonnellata.

Il governo congolese amministra le miniere di cobalto sotto monopolio di Stato e ha istituito a marzo la società pubblica Entreprise Generale du Cobalt per acquistare, lavorare e commercializzare tutto il cobalto artigianale prodotto nel Paese, che i minatori di solito scavano a mano e vendono a intermediari non regolamentati, molti dei quali cinesi, che poi rivendono in Cina.

Le miniere di cobalto non artigianali invece sono quasi tutte in mano alla Congo DongFang International Mining, controllata dalla Huayou Cobalt di Shanghai, società che appena cinque anni fa ammise pubblicamente di avere «insufficiente consapevolezza della catena di approvvigionamento del cobalto» in Rdc e che tra i suoi clienti più conosciuti ha, ancora oggi, l’americana Apple Inc.

Non si tratta quindi di una questione «cinese» ma di istinto predatorio declinato, globalmente, nella logica del profitto. Un problema che, nelle miniere di cobalto, si chiama sfruttamento: impiego di lavoratori minorenni, condizioni di lavoro proibitive e paghe misere sono oggi solo la punta dell’iceberg del problema. Perché in un territorio critico come l’est della Rdc, dove il problema della violenza è presente da decenni e dove chiunque abbia provato a metterci mano è stato costretto a ritirarsi , la popolazione è dilaniata dall’isolamento, dalla violenza e dallo sfruttamento.

È proprio qui che l’ambasciatore italiano Attanasio ha perso la vita, è proprio qui che il Nobel per la Pace Denis Mukwege opera con il suo Panzi Hospital per «riparare le donne» vittime di violenze e di stupro, usato come arma di guerra, ed è proprio qui che l’emergenza si è cronicizzata. Chi non subisce il terrorismo subisce lo sfruttamento o la povertà e allora proprio il terrorismo può, per qualcuno, rappresentare una soluzione a tutti i problemi. O a parte di questi.

Lo scandalo dello sfruttamento è talmente vivo che a settembre le autorità congolesi hanno sospeso l’attività di alcune aziende cinesi del settore minerario in Sud Kivu e il direttore generale del dipartimento degli affari africani presso il ministero degli Esteri cinese, Wu Peng, ha risposto alla decisione di Kinshasa stigmatizzando l’operato di tali aziende, condannandone la condotta.

Una cosa, anche quella, più unica che rara. Ad agosto, dopo settimane di tensione tra le aziende cinesi e le comunità locali di minatori, il governatore della provincia del Sud Kivu Théo Ngwabidje Kasi ha messo alla porta le aziende cinesi al fine di «ristabilire l’ordine nell’estrazione semi-industriale» e proteggere «gli interessi della popolazione locale, l’ambiente e il rispetto dei diritti umani». In realtà il problema della violenza in Rdc è nelle nostre case: i nostri smartphone, i computer , sono fatti anche con cobalto e minerali estratti da schiavi, venduto ad aziende cinesi e infine lavorato per altre aziende tech di tutto il mondo. Usa e Ue compresi.

Per tutte queste ragioni, l’evacuazione cinese dalle aree di estrazione ha implicazioni che vanno molto oltre la notizia in sé. La situazione nella Rdc orientale è stata oggetto anche di un incontro, in occasione del vertice Cina-Africa di questa settimana a Dakar, in Senegal, tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il suo omologo congolese Christophe Lutundula, che hanno discusso proprio della sicurezza dei cittadini cinesi in Rdc.

Secondo l’agenzia di stampa Xinhua la parte cinese è «estremamente preoccupata per i recenti gravi crimini di rapimenti e omicidi dei suoi cittadini», ed ha esortato Kinshasa di fare il possibile per ottenere «il rilascio dei rapiti» e creare «un ambiente sicuro e stabile per la cooperazione bilaterale».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento