«Closeness», dopo la guerra la scelta di Ila
Cannes 70 Al Certain regard il convincente esordio alla regia di Kantemir Balagov, con una intensa protagonista: Darya Zhovner
Cannes 70 Al Certain regard il convincente esordio alla regia di Kantemir Balagov, con una intensa protagonista: Darya Zhovner
Closeness traduce male il russo Tesnota che vuol dire spazio ristretto. Il primo film di Kantemir Balagov è in effetti un ritratto di famiglia in un interno. Del ritratto, il film ha per prima cosa il formato, il 4/3 – ideale per filmare il dramma. Ma Balagov non vuole solo appropriarsi del linguaggio del cinema classico. Vuole soprattutto rimettere negli occhi dello spettatore l’estetica della televisione russa degli anni novanta. I fatti si svolgono nel bel mezzo degli anni Elsine, poco dopo la fine della guerra in Cecenia. Siamo a Naltchik, nella Repubblica della Cabardino-Balcaria. Anzi, siamo nell’officina di un meccanico. Sul ponte c’è una Lada 7. Ila, la figlia del meccanico cambia le candele. Poi si avvicina al padre e lo aiuta ad annotare i dettagli della revisione del mezzo. Il fuoco del film è lei. È osservando da vicino questa ragazza dai capelli rossi che tutto il resto si illumina e prende senso. Con la semplicità di un maestro di forme, in pochi minuti Balagov costruisce intorno a lei un castello di identità, come in un gioco di matriosche, mostrandola sempre come «interna» a qualcosa.
E quindi esterna a qualcos’altro. Con lei capiremo che cosa vuol dire vivere in comunità, in quel pezzo di Russia. Come si reagisce in una situazione drammatica, come il rapimento di un membro della famiglia. Per una serata, saremo con lei una ragazza ebrea che nel retrobottega di una stazione di servizio si ubriaca in compagnia di un gruppo di maschi di etnia cabarda, commentando le immagini di soldati russi sgozzati da combattenti ceceni…
Si potrebbe pensare allora che la sua emancipazione consista nel rifiutare una dopo l’altra tutte queste definizioni: di genere, di cultura, di etnia… E ovviamente il proprio corpo – Ila è quello che, per usare un espressione a sua volta troppo stretta, si direbbe un ragazzo mancato. In realtà il movimento del film è al tempo stesso molto più complesso e molto più semplice. Non si tratterà soltanto di far uscire Ila dalle strettoie in cui il contesto da un lato e il caso, giocando l’uno con l’altro, la rinchiudono, ma piuttosto di entrare dentro l’interrogatorio morale che la sua situazione implica. La sola caduta di stile è la citazione dell’Idiota, forse inevitabile in una produzione Lenfilm, ma che in un film così libero appare un po’ ingenua. Tolto questo, Bagalov non sbaglia una mossa e mostra una maturità fuori norma. Si permette ellissi molto dure – come solo i registi più sicuri di sé sanno fare.
Scolpisce la sua eroina con il suono e l’immagine, illuminandone il volto e il corpo in maniera sempre nuova e imprevista. È vero che dalla sua parte può contare su un’attrice, Darya Zhovner, eccezionale oltreché capace in ogni inquadratura di inventare un modo d’essere e di comunicare le proprie emozioni. Balagov è atterrato sulla Croisette preceduto dalla reputazione di essere il miglior allievo di Aleksander Sakurov. Di certo, dal suo maestro ha imparato che il genio non imita nessuno.
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