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Clima, la resistenza della Val di Susa

Reportage Tra siccità e incendi, le montagne dei No Tav sono minacciate dai cambiamenti climatici. Che i cittadini provano a contrastare

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 febbraio 2019

In Val di Susa è passato poco più di un anno dall’incendio che dal 23 ottobre ha bruciato, per più di una settimana, i boschi e le pinete di Mompantero, Bussoleno e Chianocco. «La montagna porta ancora evidenti i segni di quei giorni, ma quello che adesso preoccupa è l’erosione del terreno conseguente l’incendio», dice Piera Favro, sindaca di Mompantero, che incontro nel cortile della sede comunale di fronte al museo dedicato alla lotta partigiana in Val di Susa. Le macchie nere del bosco carbonizzato si alternano, come in un puzzle monocromatico, al grigio delle zone aride e sassose. «I versanti rocciosi costituiscono le aree più critiche; sono le più esposte all’erosione superficiale e più difficili da essere ricolonizzati dalla vegetazione. Cicatrici aperte da cui hanno origine delle frane», afferma preoccupata la sindaca, «e adesso non c’è più nulla che faccia resistenza allo scorrimento dell’acqua durante i temporali».

Da queste parti si è sempre combattuto. Qui si muoveva la brigata partigiana «Stellina» guidata dal leggendario comandante Giulio Bolaffi. Ma anche dove, il 31 ottobre del 2005 sul ponte del torrente Seghino, si è svolta una delle grandi azioni di protesta popolare contro l’installazione delle trivelle per il cantiere della Tav.
Sono sempre azioni di resistenza, questa volta alle conseguenze degli eventi naturali, a cui si preparano gli abitanti di Mompantero – 600 residenti distribuiti in 73 frazioni che si notano come puntini isolati nel grigio del versante. Più in alto, con la vetta a 3.538 m. slm. c’è il Rocciamelone, la montagna che porta con sé molti dei simboli storici e religiosi di questi luoghi.

La Val di Susa, contrariamente alla maggior parte delle valli alpine che hanno versanti freschi e umidi, ha la particolarità di avere un fianco completamente esposto a sud. Con scarse nevicate e temperature miti in inverno, la vegetazione che si è sviluppata è di tipo xerofilo, simile a quella degli ambienti secchi mediterranei.

L’estate del 2017 è stata tra le più siccitose che si ricordi a memoria d’uomo. Al 23 di ottobre, data di inizio dell’incendio, la pioggia mancava da più di ottanta giorni. Complice un caldo vento di Föhn si sono create le perfette condizioni per dare inizio a uno dei maggiori incendi degli ultimi dieci anni.

Il fuoco si è espanso velocemente per l’enorme massa vegetale che ha incontrato sul suo cammino: foglie secche, cadute in abbondanza per il vento, e la fitta copertura arbustiva sui terreni abbandonati da decenni. Lo spopolamento della montagna e la scomparsa delle attività tradizionali hanno privato il territorio di ogni forma di gestione. Il bosco ha poi fatto quello che sa fare naturalmente: espandersi e ricoprire tutte le aree da cui era stato eliminato per far spazio a pascoli e coltivi. «L’incendio ha riportato indietro il paesaggio di quasi un secolo scoprendo quanto la vegetazione aveva nascosto: mulattiere, ricoveri in pietra, muri a secco e terrazzamenti», spiega Piera Favro, «per il recupero di queste aree si deve ripartire da questo che è rimasto. Difficile che si torni a coltivare, ma certamente sono terreni che possono essere utilizzati per un pascolo sostenibile».

Mompantero è uno dei comuni più vasti della Val di Susa, ma a fronte di pochi residenti il suo territorio ha una elevata frammentazione catastale: circa 29.000 particelle. È la testimonianza di una passata agricoltura di sussistenza: appezzamenti che venivano continuamente suddivisi tra i familiari e che ne garantivano appena la sopravvivenza. La sindaca Favro mi parla di un interessante progetto promosso dalla regione Piemonte per il recupero di queste aree degradate: una associazione fondiaria tra tutti coloro che sono disposti a mettere in comune un terreno abbandonato. «In poco tempo si è avuta l’adesione di 270 residenti per circa 70 ettari di incolti. Abbiamo effettuato investimenti per migliorie di stabilità e il recupero di antichi fontanili. I terreni sono poi affidati ad allevatori locali, con l’impegno di mantenere il pascolo produttivo e provvedere alle opere di manutenzione».

L’area è anche oggetto di studio per un progetto europeo Life sulla biodiversità degli ambienti prativi e pascolivi della Val di Susa, con particolare riferimento alla presenza delle orchidee selvatiche. Questi fiori, protetti da regolamenti nazionali e direttive europee, sono in decremento numerico a causa dell’avanzare dei boschi e della macchia arbustiva. Il progetto avrebbe dovuto concludersi nel 2018 ma è stata data una proroga di un anno per verificare l’effetto dell’incendio sulla vegetazione. I ricercatori dell’Università di Torino hanno accertato che le orchidee hanno ugualmente germogliato senza subire l’effetto del passaggio delle fiamme.

Amalita Isaia è coautrice del recente volume – Orchidee del Piemonte, edizioni Boreali – con le tavole del disegnatore naturalista Lorenzo Dotti: «nell’area percorsa dall’incendio, tra i 500 e i 900 metri, abbiamo censito 22 specie di orchidee, alcune molto rare come la Ophrys tetraloniae e la Ophrys fuciflora, certamente tra le più vistose della flora europea» e aggiunge, «sui prati-pascoli l’incendio è passato velocemente bruciando la scarsa vegetazione superficiale, e il calore prodotto non ha danneggiato la parte ipogea del terreno e i piccoli rizo-tuberi delle orchidee».

Sulla strada per il Rocciamelone sono con Renato Bruno, ispettore del servizio antincendio boschivo di Mompantero: «In poco tempo le fiamme sono salite rapidamente su tutto il versante. Il forte vento e l’intensità del calore non ha permesso alle squadre di lavorare allo spegnimento ed abbiamo dovuto evacuare tutti i residenti delle piccole frazione montane, circa 200 abitanti».

Bruno mi fa notare lo scheletro di sassi e mattoni di alcune case in cui, anche se non raggiunte direttamente dalle fiamme, l’enorme calore sviluppato dalla combustione degli alberi ha fatto esplodere a distanza le bombole di gas delle cucine. «L’emergenza prioritaria è ora il dissesto della montagna, non più capace di trattenere l’acqua piovana» continua l’ispettore, «e ogni temporale trasporta a valle terra e cenere avviando il processo erosivo del terreno».

È quanto già avvenuto il 7 giugno 2017 a Bussoleno, uno dei comuni colpiti dall’incendio. Un forte temporale ha provocato il cedimento di un terreno reso debole dall’assenza di vegetazione, trascinando a valle un fiume di fango che ha travolto 80 abitazioni. Ancora oggi persiste una zona rossa in cui è interdetto il transito per il rischio di nuovi smottamenti.

Sul monte Pampalù, dove l’incendio ha bruciato per diversi giorni, raggiungo Luca Giunti, un guardiaparco del parco regionale Alpi Cozie. «Una pineta naturale di Pino silvestre Pinus sylvestris, circa 3000 ettari, è stata completamente distrutta. Qui è tutto carbonizzato: oltre gli alberi, anche il suolo, che si è mineralizzato di ogni sua componente organica. Dopo 15 giorni dalla fine dell’incendio il terreno del Pampalù continuava ancora a emettere fumo e calore». La sensazione che si ha osservando gli scheletri anneriti degli alberi è quella di trovarsi in una foresta rimasta muta e pietrificata di fronte l’energia liberata in quei giorni. L’atmosfera trasmette un profondo stato emozionale di silenzio e rispetto: sarà per questo che mi accorgo che parliamo a bassa voce.

«Il bosco è scomparso e la montagna è completamente cambiata; ma non per questo è meno viva. Adesso ha bisogno di essere raccontata e vissuta più di prima perché, lentamente, la natura sta compiendo incredibili passi per guarire dalle ferite» afferma il guardaparco. In alcune aree la vita è già iniziata: una semplice flora spontanea sembra galleggiare in un mare di cenere e, poco distante, un picchio rosso Dendrocopos major scava caparbiamente un tronco alla ricerca di larve. È il segnale di cui Luca Giunti mi parla – la natura che lavora, con i suoi tempi e ritmi silenziosi, a creare un nuovo ambiente, diverso dal precedente ma non per questo meno pregiato. «Si è proposto di effettuare un rapido rimboschimento, anche con gli alberi di natale utilizzati durante le feste natalizie» sorride Giunti, «ma quando si affrontano tematiche ambientali, l’approccio è spesso solo emozionale. Oltre alle enormi spese per una operazione del genere, importare alberi da vivai esterni rischia di introdurre nuovi parassiti del legno causando un disastro ancor più grave».

«È nella gestione sostenibile del territorio che si dovrebbero investire le migliori energie insieme mostrare fermezza nella lotta all’abusivismo e alla predazione del territorio. Ma questo l’uomo non riesce proprio a pensarlo, come dimostrano le tragedie che avvengono ogni anno», conclude infine Giunti.

A fine giornata si alza un vento di scirocco che porta lontano la sensazione di un inverno che qui non sembra ancora arrivato. Dopo un’estate tra le più calde e siccitose degli ultimi due secoli, anche la neve è scarsa, persino alle pendici del Rocciamelone, la montagna che rifornisce un sistema idrico sotteraneo tra i più importanti della val di Susa.

A Mompantero, una bandiera anti Tav e un grande murales che rappresenta un treno vorace che divora la montagna, riporta tutto alla realtà delle future scelte, in cui infine sarà solamente la mano dell’uomo a decidere sull’equilibrio di ogni cosa in val di Susa.

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