Classici al Lido, misteriosa Linda Darnell
All’epoca delle riprese di Sangue e arena, Linda Darnell aveva solo 17 anni. Era il 1941. Pare così assurdo associare la giovanissima età anagrafica alla recitazione matura che regala al personaggio di Carmen Espinosa, moglie casta e devotissima del torero Juan Gallardo alias Tyrone Power.
Darnell e Power aveva già lavorato insieme altre tre volte (Moglie di giorno, La grande missione, Il segno di Zorro) costituendo davanti alla mdp una coppia sulla scia di quella ben più rodata formata da Errol Flynn e Olivia de Havilland, con meno titoli all’attivo rispetto all’originale ma dotata di quel glamour impertinente che solo in pochi riescono a trasmettere sullo schermo. E nonostante Darnell, in questo furioso mélo di Rouben Mamoulian infuocato dal Technicolor – il restauro a cura dei Walt Disney Studios in collaborazione con The Film Foundation sarà presentato alla Mostra del cinema di Venezia il 2 e il 3 settembre – venga irrimediabilmente offuscata dalla violenta sessualità dell’allora emergente Rita Hayworth (colei che ha anche le battute migliori: «A me piace l’odore dei cavalli e dei tori»), di lì a poco esploderà come icona di fascino: nel 1944 verrà nominata tra le quattro donne più belle di Hollywood assieme a Ingrid Bergman, Hedy Lamarr e Gene Tierney. Nata nel 1923, di discendenza cherokee da parte materna (ha interpretato una nativa americana in Buffalo Bill con Joel McCrea), la fotogenia di Darnell traeva giovamento dai tratti latini messi in risalto da una folta chioma corvina e da uno sguardo scuro capace di irretire per la sua profondità.
Dopo le esperienze con Power, tra cui appunto quella di Sangue e arena dove purtroppo risulta essere il personaggio più bistrattato dell’intero cast (salvo il botta e risposta affilato con Doña Sol/Hayworth: «Posso offrirle qualcosa?», «Sì, mio marito») oltre a ergersi vera vittima della storia (viene dipinta dal consorte come «la più sincera donna del mondo» in un’opera traboccante sesso e morte), stanca di dare volto e corpo a donne naïve s’impuntò con Darryl F. Zanuck e la 20th Century Fox per ottenere ruoli più ambigui e seduttivi. Tolta la parentesi di Bernadette (Darnell compare davanti a Jennifer Jones come Beata Vergine, bellezza latina e pure mariana), i lavori successivi la videro districarsi in figure dalla forte carica erotica: per John Ford diventa la rovente Chihuahua, «donna da saloon», in Sfida infernale; è la sorella sfacciata di Jeanne Crain «la ragazza della porta accanto» in Bellezze rivali di Otto Preminger, col quale lavora anche in Ambra, ovvero la favorita di Carlo II d’Inghilterra, e nei dimenticati noir Un angelo è caduto e La penna rossa. Ci sono anche stati Douglas Sirk (Temporale d’estate, 1944) e René Clair (Avvenne domani, 1944), Preston Sturges (Infedelmente tua, 1948) ed Edmund Goulding (Se mia moglie lo sapesse, 1949).
Sarà però Joseph L. Mankiewicz a farle sfiorare la nomination all’Oscar con Lettera a tre mogli: Darnell ottiene il tanto atteso riscatto e, finalmente, riesce a portare sullo schermo Lora Mae Hollingsway (Dorothy nella versione italiana), cresciuta in ristrettezze economiche, affamata di riscatto sociale e pronta ad accalappiare il facoltoso principale che ignora la sua vera natura di predatrice: «Io ottengo tutto quello che voglio» risponde tronfia alle amiche; estremamente camaleontica nel cambiare faccia prima e dopo le nozze, finalmente la tanto sofferente Carmen Espinosa di Sangue e arena può tirare un sospiro di sollievo e godersi i frutti che la sua interprete è riuscita a far maturare, dopo anni di lotte, per dimostrare come un’attrice valga molto di più dei suoi personaggi.
Ma nonostante le soddisfazioni professionali, Darnell nel privato era estremamente infelice. I suoi tre matrimoni naufragarono e la relazione clandestina con Mankiewicz, durata dal 1949 al 1954, terminò perché lui non aveva intenzione di lasciare la seconda moglie. Per lei, Mankiewicz fu il più grande amore della sua vita; lui, invece, si limitò solo a dire: «Linda era una ragazza meravigliosa con problemi personali terrificanti». Stop. La bottiglia divenne triste rifugio e quando iniziò la produzione di La contessa scalza, fraintese la possibilità di incarnare la protagonista, per lei sarebbe stata un’ulteriore scommessa di rilancio e di continuare la relazione con Mankiewicz dopo l’ottima prova in Uomo bianco, tu vivrai!, «l’unico buon film che abbia fatto» a detta sua; seppe poi dai giornali che la parte andò ad Ava Gardner.
Questo la ferì ulteriormente, ma continuò con determinazione a lavorare e a sperimentare. Ebbe una breve parentesi italiana, sempre nel 1954 girò Donne proibite con Valentina Cortese e Lea Padovani, e l’anno dopo Gli ultimi cinque minuti con Vittorio De Sica, entrambi per la regia di Giuseppe Amato; si dedicò anche al palcoscenico; nel 1965 tornò sul grande schermo con Lo sperone nero, western «old style», sua ultima interpretazione prima di morire in incendio domestico causato da una sigaretta. Aveva 41 anni. Kenneth Anger, nel caustico volume Hollywood Babilonia II, le ha dedicato tre grandi foto in bianco e nero: due del rogo in cui è perita e una di lei, a figura intera, in posa sorridente mentre si infila una calza; l’unica didascalia recita: «Linda Darnell’s inferno», l’amaro destino della realtà oltre la celluloide.
Lo splendore contava eccome – soprattutto a Hollywood, la città degli orpelli –, ma fino a un certo punto per lei: «Superati i trent’anni, i danni del tempo non mi terrorizzano più. Mi hanno detto che quando la bellezza se ne va, emerge la vera donna». Ed è assai triste quando ci si dimentica, con facilità, della sua malleabilità interpretativa. A pensarci, quante altre sono riuscite – nel giro di pochi anni – a destreggiarsi tra mogli devote e ciniche arrampicatrici senza scrupoli, tra Vergini Marie e sciantose dal sangue bollente? Non le abbiamo contate tutte ma, senza ombra di dubbio, Linda Darnell è tra queste.
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