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Claire Denis, cinema a ritmo di jazz

Claire Denis, cinema a ritmo di jazz

Intervista Al Festival del cinema europeo di Lecce, la personale della regista e l’anteprima del suo «Incroci sentimentali»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 12 novembre 2022

Nella sezione «I protagonsti del cinema europeo» del 23° Festival del Cinema Europeo di Lecce, che prevede un incontro e una personale, quest’anno è ospite Claire Denis con 6 film. Mancano il primo (Chocolat, dell’88) e l’ultimo (Des étoiles à midi), ma sono in programma i titoli con i suoi interpreti feticcio: Grégoire Colin (Nénette et Boni, Beau Travail), Juliette Binoche (High Life, L’amore secondo Isabelle ovvero Un beau soleil intérieur, Incroci sentimentali , l’Orso d’argento alla Berlinale, in prima italiana) e Vincent Lindon, al suo terzo film in 20 anni, in Incroci sentimentali, con la Denis. In Francia, uno dei maggiori successi della regista è L’amore secondo Isabelle, dove Gérard Depardieu durante le riprese aveva offeso Juliette Binoche: « Mi aveva definito, con sprezzo, ‘attrice che non ha nulla’. Per me, era stato uno choc. Poi ci siamo incontrati per caso al mercato: ha chiesto scusa e mi ha abbracciato. Le sue provocazioni sono continue, lo sappiamo. Una volta, mi ha detto: ‘Sono un mostro, ma sai quant’è faticoso fare il mostro ogni giorno?’.

È andata meglio, in Incroci sentimentali (Avec amour et acharnement), con Vincent Lindon, con cui compone una coppia che però si lacera per il passato che torna (Grégoire Colin). È la prima volta che Lindon gira un film con la Binoche. Le riprese della loro infernale scène de ménage son durate 8 ore. «Juliette e Vincent hanno voluto che fosse girato in un unico piano sequenza – racconta la regista –. Mille acrobazie per il direttore della fotografia per non intralciarli: non si blocca un treno a tutta velocità ». Lindon prova a spiegare le ragioni della « Denismania » in Usa, come lui la definisce: «Qualcosa è esploso con Chocolat: parlare della colonizzazione francese in Africa è stato evidentemente per loro un fatto importante».
Interviene Claire Denis: «Il film negli Usa è subito andato a ruba nelle università. Sono entrata nel mondo del cinema nel momento in cui tutti proclamavano: il cinema è morto. Ho conosciuto un paio di morti, ma non ho mai incontrato tanti giovani cineasti ».

Adulata negli Stati Uniti (nel 2018 le ha dedicato un ritratto il «New Yorker»), beniamina della Cinémathèque a Parigi (l’«integrale» nell’autunno di 5 anni fa con masterclass condotta dal direttore Frédéric Bonnaud), Claire Denis è in Francia il vessillo del cinema femminile dopo la scomparsa di Agnès Varda. Falsa modesta, vera ostinata, a 76 anni, la regista francese – 16 lungomentraggi, 4 documentari e 8 corti in 35 anni –, attrice in Vénus Beauté (Institut) del 1998 (era la cliente asmatica), ha accumulato dal 1973, prima di passare lei stessa dietro la cinepresa, una serie infinita di collaborazioni come assistente su set illustri : Dusan Makaveyev (Sweet Movie), Jacques Rivette, Costa Gavras, Wim Wenders (Paris, Texas), Jim Jarmusch (Daunbailò)…

«Ogni volta, sentivo il lavoro d’assistente, che si trattasse di sistemare i binari d.  te o altri interventi più umili, come parte essenziale della mia vita», sorride la cineasta, in giuria due volte a Venezia, Pardo d’oro a Locarno nel 1996 per Nénette et Boni e, quest’anno, una bella doppietta, a Berlino e a Cannes: Orso d’argento per Avec amour et acharnement e Grand Prix per Des étoiles à midi.

Con la sua aria fragile d’eterna adolescente ribelle che morde sempre il freno, cara Claire Denis, ha sfornato due film nella stessa stagione. Sfrenata?
Non è ch’io sia un’assatanata di regie. Sono anzi una persona piuttosto lenta. L’ingorgo di titoli è dovuto alla strategia delle produzioni che mi ha obbligata stavolta a correre. Il film di Cannes, ad esempio, l’ho dovuto girare a Panama.

Perché Panama?
Il romanzo breve di Denis Johnson, pubblicato nel 1986, da cui ho tratto il film, era ambientato in Nicaragua durante lo stato d’emergenza richiesto dal governo rivoluzionario sandinista. Nel film, background dell’azione è invece il COVID durante l’attuale regime Ortega. Tra il momento in cui ho deciso di girare e quello in cui ho potuto farlo, Daniel Ortega è stato rieletto e c’è stata la pandemia… Nessuna possibilità di ottenere un’assicurazione per il film: perciò, anche se avessi avuto l’autorizzazione presidenziale, mi sarei ritrovata là, sola soletta, senza troupe, senza attori.

E perché Denis Johnson?
Era da dieci anni che desideravo portare sullo schermo il suo lavoro. Mi piace tutto quel che scrive, e stavolta la sua storia è abbastanza autobiografica: è un po’, insieme, entrambi i personaggi. Sono stata colpita dallo strazio dell’attrazione: due persone che vorrebbero servirsi l’una dell’altra, senza amarsi, ma alla fine non è quel che succede.

E ancora: perché la pandemia?
È stato ben presto evidente che la trama andava incrostata della realtà pandemica. L’opzione-Panama era dovuta anche alle sue condizioni sanitarie allora eccellenti. Esattamente il contrario di quanto ho constatato al mio arrivo. Adattare la fiction alla realtà, il che comportava grosse modifiche a sceneggiatura e logistica, rientra d’altra parte nella mia cosiddetta ‘maniera’.

È per questo che il suo stile è spesso paragonato alla musica jazz?
Forse perché la musica ha sempre un ruolo cruciale nel mio cinema. Un film può nascere da una musica. Essa ritma il film, gli conferisce il tono di thriller psicologico come in Les Salauds, percorso dal gruppo rock dei Tindersticks, che ha attraversato tutto il mio cinema a partire dal ’96, con Nénette et Boni. È proprio il loro leader, Stuart Staples, che ha trovato il titolo inglese per l’uscita Usa di Avec amour et acharnement: Both sides of the Blade.

Truffaut diceva che ogni film è fatto contro il precedente. È contro «Les salauds» che ha girato «Un beau soleil intérieur»?
No, non per questo. È stato per cominciare a rivivere.

Bambina in Africa fino a 12 anni, tra Camerun, Somalia, Burkina Faso, Djibouti, chi le ha istillato la meravigliosa malattia del cinema?
Mia madre. Era una bulimica del grande schermo. Ogni mercoledi era scandito da noi da 4 anteprime. Il cinema mi è stato nutrimento quotidiano. Il primo film che mi ha sconvolto, influenzandomi per sempre? Improvvisamente l’estate scorsa: visto da liceale, allora vietato ai minori. Mi ricordo ancora Elisabeth Taylor nel suo costume bianco. E ho sentito tutta la sensualità che può trasmettere il grande schermo. Dopo, da J’ai pas sommeil del ’94, ispirato al serial killer di vecchie signore, Guy Paulin, fino a Trouble Every Day, dove la passione si trasforma in voracità cannibale, non ho mai avuto paura di cogliere quel che di umano trapela dalla mostruosità.

Il cinema è arte industriale: si ruba, si riproduce, si cita. Anche lei?
In J’ai pas sommeil avevo rubato un’idea a Rivette, che vedeva la pianta di Parigi come un gioco dell’oca: dietro il commissario, ho trapunto di spilli le varie ‘tappe’ del percorso dell’assassino.

Altre citazioni?
Da Petit soldat, film ‘maudit’, censurato, durante la guerra d’Algeria: vi ho fatto allusione in Beau Travail, 30 anni dopo. Film che mi ha permesso di dire a Godard quanto contava per me. Mi ricordo che durante le riprese di Détective, a Parigi, ho sentito Godard dire al capo-operatore: «Sai, tutti ti dicono ‘Buongiorno, come va?’, ma nessuno chiede ‘Buongiorno, come va il film?». Capisco perfettamente, ora. Nel giro di pochi giorni, un film diventa un’entità: tutti – io, la troupe, tutti quanti – dobbiamo accettarlo.

I successi di oggi: «Avec amour et acharnement» (divenuto da noi «Incroci sentimentali») sarà presentato in prima italiana a Lecce. Ennesimo corpo a corpo d’amore?
Il tabù attorno al carnale, il punto oscuro al cuore della sessualità fan parte dei miei temi prediletti, che adoro esplorare. L’amore è qualcosa che s’infiamma con il desiderio. Non può che esserci onestà nell’amore. La sequenza d’apertura, l’ho girata con un iPhone.

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