«Di Walid non sapemmo più nulla. Fu portato fuori dal campo e ucciso a sangue freddo dai falangisti come tanti altri, il suo corpo non l’abbiamo mai trovato. Aveva solo 21 anni». Bahija Szein seduta in un angolo della stanza desidera raccontare e ricordare quel 16 settembre 1982 in cui vide il fratello per l’ultima volta. La voce non tradisce emozioni ma quel suo guardare fuori dalla finestra di tanto in tanto e i silenzi che interrompono il racconto, tradiscono le emozioni che si agitano dentro di lei. «I falangisti massacravano le persone ma non l’abbiamo capito subito» ci dice accompagnando la voce con ampi gesti. Ci accoglie nella sua abitazione, la stessa dove è nata nel 1950. I genitori erano di Giaffa. La madre si imbarcò per il Libano quando la città fu bombardata dalle milizie israeliane nonostante nel piano di partizione votato dall’Onu del 1947 Giaffa fosse stata dichiarata un’enclave araba, parte dello Stato palestinese che non sarebbe mai nato. Il padre scappò verso Gaza, un anno dopo riuscì a raggiungere la moglie a Beirut. «Ho 72 anni – prosegue – ho sempre vissuto qui a Sabra, soffrendo la fame, il freddo, vivendo la paura delle guerre, gli attacchi delle milizie e il massacro del 1982». Si apre la porta di casa ed entra una bambina. Sorpresa dalla nostra presenza, dà uno sguardo veloce e scappa via.

Bahija spiega bene lo stato d’animo dei profughi di Sabra e dell’altro campo, Shatila in quei giorni del 1982. «Avevamo paura, ogni giorno arrivano notizie terribili, di donne e bambini uccisi nei bombardamenti aerei, dei nostri combattenti che resistevano ma non riuscivano a fermare l’avanzata degli israeliani verso Beirut». L’anziana prende il telefono cellulare e ci mostra una foto di Walid. «Povero fratello mio…quando i vicini ci dissero che i Kataeb (i falangisti) erano nel campo, lui e l’altro mio fratello, Nabil, ci ordinarono di non muoverci da casa e che sarebbero andati loro a cercare di capire come stavano le cose. Accettai di buon grado, avevo dei bambini piccoli e non volevo metterli in pericolo». Bahija e i suoi fratelli non sapevano che il massacro era già cominciato da diverse ore. Non potevano immaginare che i razzi illuminanti, che lei aveva visto senza darsi una spiegazione, sparati nell’oscurità dai militari israeliani posizionati fuori da Sabra e Shatila, servivano a favorire la cosiddetta «operazione antiterrorismo» avviata dai gruppi più sanguinari della Falange e della destra libanese. Per «antiterrorismo» si intendeva l’eliminazione fisica di uomini, in gran parte giovani, ma anche di donne e bambini. «I miei fratelli – prosegue Bahija – furono presi dai Kataeb e portati al campo di calcio. Lì Nabil assieme ad altri riuscì in qualche modo a scappare. Allora vinsi la paura e andai a cercare Walid. Ad un posto di blocco israeliano un soldato che parlava qualche parola di arabo mi fece passare tenendomi sempre sotto tiro. Ma non trovai Walid. Tornando a casa, dentro i vicoletti del campo vidi corpi di morti ammassati, non erano solo uomini. Portai le mani al volto e scappai via in lacrime. Di Walid non abbiamo più saputo nulla. Qualcuno ci disse che era stato ucciso assieme ad altri». I dispersi, centinaia, sono uno dei dati più dolorosi della strage. In quelle stesse ore, ovunque Sabra e Shatila, l’orrore continuava senza sosta.

1982, i corpi di alcune delle vittime

Non si è mai saputo con precisione il numero delle vittime. Israele, per attenuare le sue responsabilità, accertate peraltro anche da una commissione d’inchiesta interna (Kahan), parla di «centinaia di morti». I palestinesi di almeno 3mila. Per il massacro di Sabra e Shatila il democratico mondo occidentale non si è mai mosso per chiedere una indagine internazionale e accertare le responsabilità di Israele e dei falangisti. Tel Aviv non andò oltre la rimozione del ministro della difesa Ariel Sharon – ma non lasciò il governo – che pur avendo sulla coscienza il peso di aver consentito ed appoggiato con convinzione l’ingresso nei campi palestinesi alle milizie falangiste desiderose di vendetta e, quindi, di uno dei peggiori massacri di civili della seconda metà del secolo scorso, è morto incoronato «alfiere di pace» dai media e dai governi occidentali perché aveva ritirato nel 2005 le truppe israeliane da Gaza. Nei mesi scorsi il quotidiano Haaretz ha riferito che il Mossad, il servizio segreto israeliano, ha comunicato di incontrare «difficoltà a trovare» nei suoi archivi i documenti che confermano le strette relazioni instaurate da Israele con i Falangisti libanesi già negli anni ’70. In parole povere sono spariti.

Il massacro di Sabra e Shatila parte dal lontano, da quel 6 giugno 1982 quando cominciò «Pace in Galilea», l’invasione israeliana del Libano. A concepirla era stato l’allora ministro della difesa Ariel Sharon, in accordo con la famiglia Gemyael leader della Falange libanese, un partito armato ideologicamente fascista che della espulsione, in qualsiasi modo, dei profughi palestinesi dal Libano aveva fatto la sua missione. Con la piena approvazione del premier di destra Menachem Begin, Sharon spiegò l’offensiva come finalizzata a porre termine agli attacchi e alle scorribande lungo il confine dei combattenti palestinesi dell’Olp guidato da Yasser Arafat.

L’obiettivo reale, studiato con i falangisti, era invece quello di cacciare via ad ogni costo l’Olp dal Libano e di mettere a capo del paese dei cedri un presidente-fantoccio stretto alleato di Israele. Per questo le forze armate israeliane – facendo migliaia di morti e feriti e colpendo Sidone e Tiro – avanzarono rapidamente verso Beirut che avrebbero poi tenuto sotto assedio per settimane senza entrarvi. L’arrivo di Philip Habib, inviato del presidente Usa Ronald Reagan, porta a ciò che volevano Sharon, Begin e i falangisti: un accordo per l’uscita dal Libano di Arafat, dell’Olp e di 15mila combattenti palestinesi, costretti ai primi di settembre a dirigersi con i traghetti in gran parte a Tunisi ma anche in Siria. I campi profughi restano senza protezione. E quando il 14 settembre il presidente libanese scelto da Sharon, Bachir Gemayel, restò ucciso in un attentato, le truppe israeliane occupano la parte occidentale di Beirut aiutando i falangisti nella ricerca di «terroristi» nascosti nei campi. Sharon è anche lui lì, in edificio vicino a Sabra e Shatila, dove può osservare l’andamento dell’«operazione antiterrorismo». Il 16-17-18 si compie il massacro sotto gli occhi dei comandi israeliani che non intervengono. I falangisti e varie formazioni della destra libanese, in particolare quella agli ordini del sanguinario Eli Hobeika ammazzano con coltelli e sparando alla testa i «terroristi» catturati, ossia migliaia di profughi inermi. E non mancano di fare irruzione anche nell’ospedale «Gaza» l’unico ancora operativo nei campi uccidendo a sangue freddo degli infermieri. La carneficina e la vendetta, erano compiute. I suoi responsabili non hanno mai pagato, a cominciare dagli israeliani. Venti anni dopo Hobeika si disse pronto a raccontare la sua verità. Non avrà mai la possibilità di farlo: una bomba lo avrebbe ucciso nel 2002.

«Ancora oggi ripenso con dolore a quando lasciai Beirut assieme ai combattenti dell’Olp» ci dice Vittorio Rosa, 60 anni, di Padova, cresciuto a Sabra e Shatila fino all’età di 20 anni. «La mia vita – ci spiega – da lungo tempo è in Italia però mi considero ancora un palestinese. I primi venti anni della mia vita li ho passati qui, in questi vicoli dove vedo che è peggiorato tutto». Figlio di Lia Rosa, medico e ostetrica volontaria nei campi, e di un profugo palestinese originario di Gaza, Vittorio Rosa a Sabra e Shatila è tornato quest’anno per la prima volta dopo 40 anni. Ad accompagnarlo c’è la moglie Renata che lo rincuora nei momenti in cui l’amarezza ha il sopravvento. «Non ho mai avuto la forza per rientrare in questa che era la mia casa. Sono venuto per dare il mio saluto ai miei compagni, alle donne ai bambini che conoscevo e che furono uccisi» spiega Vittorio. «In Siria – aggiunge – sapemmo solo tempo dopo del massacro e fu un grande dolore, ripensai ai miei amici, alcuni erano tra le vittime. Non ho mai superato il trauma». Rosa, oggi un sindacalista in Veneto, vede nell’allontanamento da Beirut voluto da Israele e dai falangisti dei combattenti dell’Olp, la porta del massacro avvenuto a Sabra e Shatila pochi giorni dopo. «Mentre eravamo in viaggio non potevamo non pensare ai civili lasciati senza protezione. Una strage la temevamo, la sentivamo…ed è accaduta. Avevamo avuto delle garanzie che i campi palestinesi non sarebbero stati toccati. Gli americani, gli europei avevano dato delle assicurazioni che non sono state rispettate».