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Ci abbiamo provato

Ci abbiamo provatoFoto di Tano D'Amico

Anticipazione "Ci abbiamo provato, Parole e immagini del Settantasette" esce per Bompiani il 15 novembre. qui un'anticipazione del dialogo tra Balestrini e D'Amico su un anno diverso dagli altri

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 28 ottobre 2017

Pubblichiamo un’anticipazione del libro che uscirà edito da Bompiani il 15 novembre «Ci abbiamo provato. Parole e immagini del Settantasette» di Nanni Balestrini e Tano D’Amico.

Il libro irrompe con le immagini, gli slogan e considerazioni di Balestrini sulla trasformazione del linguaggio che rompe con gli schemi tradizionali, quindi inizia un approfondito dialogo tra Nanni Balestrini e Tano D’Amico (noi abbiamo ritagliato una piccola parte delle loro considerazioni tra momenti di rinascita culturale e punto di vista del fotografo sulla realtà in trasformazione). Segue una cronologia ragionata dei fatti, dal 21 gennaio al 25 novembre e una bibliografia.

(dal testo di Nanni Balestrini)

Ovunque si stanno preparando fastose celebrazioni per il cinquantenario del Sessantotto, il grande movimento sociale, culturale e politico, che su scala mondiale ha operato la profonda trasformazione della società e della quotidianità che ancora oggi viviamo. Ma l’anniversario di quello che, nel lungo decennio italiano che ne è seguito, ha rappresentato con la sua breve scintillante esistenza il suo punto più alto, il Settantasette, è passato praticamente sotto silenzio.

Negli anni settanta, in Italia, il Movimento, nato dalla fusione delle lotte studentesche con quelle operaie, subisce una repressione, sempre più spietata. Che gradualmente da posizioni di autodifesa trascinerà alcune sue parti verso una disperata lotta armata. Senza sbocchi, contro il piombo e il terrorismo dello Stato, con le sue stragi, i morti e i cumuli di carcerazioni.

Ma improvvisamente, impetuosamente, una nuova generazione di studenti e di giovani proletari invade la scena del conflitto sociale in forme inedite. Fino ad allora le lotte del Movimento, dilagate in tutta la penisola, avevano avuto, se pure con modalità nuove rispetto alla tradizione comunista, come obiettivo finale l’abbattimento del dominio capitalista nella radiosa visione del sole dell’avvenire: la rivoluzione finale per la realizzazione di un mondo migliore, libero dallo sfruttamento degli oppressi e improntato agli ideali di solidarietà e giustizia sociale.

La nuova generazione non «vuole tutto» in un futuro lontano e incerto, ma vuole viverlo oggi e subito, nella quotidianità. Vuole rivoluzionare il presente per vivere adesso, immediatamente, i suoi desideri e le sue necessità. L’esperienza del Settantasette si può paragonare a quella di un altro momento storico carico di valore simbolico, anch’esso durato una breve stagione, il 1871, l’anno della Comune di Parigi.

(…)

La Comune di Parigi fu una meteora luminosa, ma la sua forza sta nell’avere fermato la storia. Si racconta che i comunardi sparavano con i fucili contro gli orologi pubblici per fermare il tempo. E il tempo della storia lì si è fermato. Non si è trattato di un’utopia, ma di una scheggia di futuro piombata nel mezzo del presente. E fuoriuscita dal tempo per diventare simbolo di un mondo nuovo, giusto e felice. E così è stato per il nostro Settantasette. È l’anno in cui a Londra nasce il punk con i Sex Pistols e nella Silicon Valley la nuova tecnologia della comunicazione con Apple. Fu l’anno del dissenso operaio nei regimi comunisti di Praga e Varsavia. Il 31 gennaio a Parigi si inaugura il Beaubourg, il nuovissimo museo d’arte contemporanea Georges Pompidou e il 1° febbraio in Italia iniziano le trasmissioni della televisione a colori. È l’anno in cui giunge a maturazione il processo di trasformazione del lavoro operaio, sotto la spinta dell’automazione nelle fabbriche. La fine di una forma di lavoro, avviata dalla rivoluzione tecnologica e dalla crisi del modello industriale, cambia i rapporti tra le classi sociali, ma anche la percezione dell’identità stessa dei proletari. La trasformazione dei luoghi di lavoro e la concezione tradizionale dell’impiego muta tra i giovani che si affacciano alla vita civile. Con l’avvento dell’automazione nei processi di produzione, i giovani operai iniziano a reclamare più spazi e tempo libero, più occasioni per godersi la vita. Non solo non si identificano più con un lavoro che abbrutisce, ma mettono in crisi lo scopo ultimo del posto fisso, l’orario di lavoro stabilito dalle esigenze del capitale.

IL RIFIUTO DEL LAVORO

Queste istanze di rottura con modelli di vita tradizionali alimentano occasioni di scontro con la parte più conservatrice della società, ma spiazzano anche i rappresentanti istituzionali, sindacali e politici della sinistra. Prima del 1977 il lavoro era visto come la forma unica e vincolante dell’esistenza: si lavorava otto e più ore al giorno, si guadagnava e si spendeva un salario. Le rivendicazioni dei lavoratori non mettevano in discussione il meccanismo complessivo, ma cercavano di migliorarne le condizioni. Il modello del «fordismo» aveva assicurato per decenni un orizzonte stabile e nella accezione più democratica la forza lavoro doveva essere gratificata da un salario in grado di far circolare il consumo.
Eppure, con l’inizio dell’automazione nelle grandi fabbriche, la crescita del terziario e dei colletti bianchi, del peso dell’ «economia della conoscenza», qualcosa inceppò il modello. Accanto agli scioperi degli operai, pur sempre sfruttati, che non delegano più ai sindacati e al Partito Comunista Italiano le loro lotte sempre più aspre, emerge progressivamente un’idea più radicale, quella del rifiuto del lavoro stesso e non solo delle condizioni di lavoro. Un epocale cambio di paradigma

I PARADOSSI DEL 77

(…) Accanto a episodi di repressione e intimidazione, come le morti di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, fu un anno straordinario caratterizzato da una profonda trasformazione culturale. Abbiamo una grande ripresa e rinascita del teatro underground, sotto l’influenza del Living Theater, presente in Italia. Fu l’anno in cui alla prima al Teatro Manzoni di Milano del S.A.D.E. di Carmelo Bene, lo spettacolo fu sospeso dal questore di Milano per oscenità, per la presenza di nudi femminili sul palcoscenico.

Fiorirono in quell’anno straordinari artisti come il fotografo di paesaggi infiniti Luigi Ghirri o il regista Carlo Quartucci.

(…) Con l’aumento della disponibilità dei mezzi di produzione e del digitale, nacque anche la video art. In quegli anni registi come Alberto Grifi mescolavano cinema e impegno politico. Poco prima erano usciti film come Anna o Parco Lambro che avevano abbattuto barriere simboliche fortissime. Artisti come Piero Gilardi si dedicavano all’animazione culturale nelle strade e nelle piazze, mentre Gianfranco Baruchello faceva del lavoro agricolo un’attività artistica e Pablo Echaurren illustrava e pubblicava i fogli del Movimento.

(…) Visti a distanza, l’eccezionalità e il fascino di questo breve periodo e del movimento sta nel come una quotidianità di festa e di gioia collettiva abbia potuto dispiegarsi nonostante il feroce attacco repressivo a cui era sottoposto da parte dei poteri armati dello Stato, con le sue violenze e le sue vittime, sempre assecondato dagli organi d’informazione ufficiali. È impressionante notare oggi l’abisso tra scritti e immagini nella stampa dell’epoca e il vissuto reale documentato da immagini come quelle di questo libro.

 

(dal testo di Tano D’Amico)

A ogni cambio di paradigma sociale corrisponde un nuovo modo di vedere o fissare le immagini nelle fotografie. Anche qui è appropriato il paragone con La Comune di Parigi. Allora come nel 1977 è come se, in un certo senso, le immagini sono state in grado di anticipare i fatti che esse stesse rappresentavano. Al tempo della Comune, Nadar, il pioniere di tutti i fotografi, partecipò attivamente alla rivolta ma stupisce che proprio lui non produsse alcuna fotografia degli avvenimenti salienti. Perché? Per il semplice fatto che era troppo intento a costruire relazioni con le altre persone, e parallelamente elaborare una forma innovativa dello sguardo, ovvero del modo di guardare agli altri e guardare se stessi.
È per questo che invece degli eroi e i capipopolo i suoi modelli erano le persone comuni, gli amici con cui pranzava o beveva. Ognuno libero per la prima volta in modo inedito e inebriante di mostrarsi e rappresentarsi per come si sentiva senza pose o ostentazioni. Il suo è uno sguardo figlio dei pittori impressionisti, penso ai quadri di Éduard Manet nella sua Olympia o in Colazione sull’erba l’importante non è la bellezza di Venere o l’esibizione di status da parte di ricchi ma la maliziosa bellezza dell’amica o il piacere di un pasto tra sodali. Irrompe lo «sguardo degli affetti» nei ritratti fotografici di Nadar così come si ritrova nei volti delle persone che ho fissato per sempre nel 1977. Le mie fotografie sono in gran parte ritratti di persone, più che avvenimenti storici. Questo focus non sull’azione, le celebrità ma sulle persone comuni è un modo di vedere sovversivo per i tempi della Comune come per il racconto di un fatto storico politico e pubblico. Quando nelle fotografie non compaiono eroi, azioni epiche ma i sentimenti e le emozioni delle persone comuni la rottura è più evidente. Quando questa consapevolezza dell’importanza dei sentimenti diventa insopportabile per i poteri, purtroppo scorre il sangue. Questo è stato per la Comune ed è avvenuto per il Settantasette.

IL SILENZIO

(…) Gli scatti possono anticipare gli eventi, hanno questo potere incredibile di rivelare un’atmosfera, un momento storico e a ben guardare svelare qualcosa di quello che succederà dopo. Me ne rendo conto oggi, guardando dopo quaranta anni gli scatti di quegli anni. È un processo necessario mettere ordine e trovare, con la giusta distanza del tempo, un senso a quello che all’epoca sembrava solo un groviglio di azioni e reazioni di manifestanti e forze dell’ordine. Le fotografie ci aiutano a ricostruire un filo conduttore altrimenti difficile da cogliere.

Mi viene in mente il gennaio del 1977 in cui non capitò niente. Io feci un viaggio molto triste che avrebbe dovuto mettermi in guardia su cosa sarebbe successo. Andai nelle fabbriche e nei compound a Torino, a Milano, a Porto Marghera e ovunque trovavo un silenzio innaturale. Per la prima volta nella mia vita entrando in fabbrica, negli spazi delle mense e del dopolavoro non ritrovavo il consueto ambiente vivace degli operai che si chiamavano da un tavolo all’altro, urlavano, scherzavano. Regnava un tale silenzio che rimanevo zitto anch’io. Rimasi colpito da un giovane che stava pranzando con un panino, davanti a un bicchiere di vino bianco, e gli chiesi con uno sguardo se potessi scattargli una fotografia. In silenzio lui, con un cenno, acconsentì. Nella stanza c’era una luce flebile, fioca, perciò usai dei tempi di esposizione molto lenti e, nonostante usassi delle macchine fotografiche silenziosissime, il silenzio intorno era tale da riuscire a sentire il rumore della tendina che scorreva sull’otturatore. Erano giorni di grande silenzio perché le persone che avevano già occupato le fabbriche e le case stavano riflettendo. Era un periodo di consapevolezza cercata, trovata anche. Tornai a Roma dopo un mese. Era il 1° febbraio e quando accesi la radio scoprii che la mattina, mentre si stava svolgendo un’assemblea del Comitato di Lotta contro la circolare Malfatti (che annullava la liberalizzazione di piani di studio), una squadra di fascisti del FUAN (organizzazione studentesca del MSI) era entrata nell’università armata di pistole, e aveva sparato in testa a un ragazzo, Guido Bellachioma. La mattina seguente andai all’università, tutti vi accorrevano benché non ci fossero delle radio né tanto meno internet a dare appuntamenti.

C’era un sentire comune. Quella fu soltanto una delle aggressioni squadriste di quegli anni, ma segnò la nascita del Movimento. Il 2 febbraio ci furono delle raffiche di mitra in Piazza Indipendenza a Roma, con dei feriti gravi.

LA ROTTURA

(…) Nelle fotografie dei gruppi di attivisti del settantasette si trova facilmente traccia del passaggio da un proletariato in cui il senso di appartenenza a un’unica classe sociale era il collante a una moltitudine composita fatta di diversità e minoranze. Le foto delle manifestazioni di piazza restituiscono l’idea non tanto di un corpo sociale unico, ma di un emergere di tanti soggetti diversi e spesso distanti tra loro. Questo rendeva più sfumati e porosi i confini e i fronti dello scontro politico e non è casuale che proprio nel 1977 la violenza viene fatta deflagrare in modo ancora più potente rispetto agli anni precedenti. Quella quiete piena di tensione dell’inizio dell’anno a un certo punto è esplosa con un fragore impressionante proprio perché il silenzio nascondeva paure, preoccupazioni e il preciso intento da parte dei vertici dello Stato di stanare i movimenti in subbuglio per dare una definitiva «zampata» per cancellarli. Perché questo? Perché era massimo il rischio di contagio, di radicamento (e non radicalizzazione) di idee pericolose di cambiamento dello status quo. Se pensiamo a nazioni come il Cile di quegli anni scendevano in piazza i soldati per impedire un eventuale golpe e anche i soldati avevano un fazzoletto rosso.

© 2017 Giunti Editore S.p.A./Bompiani

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