Christopher Isherwood, la Madre, l’Amante, la Strega, e un nuovo doppio per Chris
«Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato…». Così scrisse Christopher Isherwood, secondo la traduzione di Laura Noulian, in Diario berlinese. Autunno 1930.
La Mettrie, il settecentesco teorico dell’homme machine, sarebbe stato felice di tale prolungamento, ai suoi tempi impensato, della già prodigiosa macchina umana. «I am a camera» è il drastico motto che intende prevenire la perdita di uno spicchio qualsiasi di realtà, e il suo rimedio: la fotografia. Sarà una cura per la nostalgia, offrendo il sottile veleno della pallida, inconsistente copia. L’io che scatta la foto d’una scena quotidiana in segreto mutamento, e la fissa per sempre in un tempo indefinito, non ricorda l’ansia con cui puntò l’obiettivo, operò la scelta. Ma non si sorprenderà se, in futuro, il significato di quel gesto gli sfuggirà.
Gli scatti presi velocemente sul fronte di guerra – il tragico palazzo sventrato dalle bombe, i cadaveri sparsi in terra, meno che cose in disfacimento – faranno emergere l’irrealtà orribilmente ingegnosa della guerra. Quegli scatti vivranno una durata propria.
Nel 1930 Herr Isservut sta per lasciare Berlino nell’imminenza del disastro. «Oggi splende un sole brillante; il clima è molto dolce e caldo. Esco per la mia ultima passeggiata mattutina … Scorgo la mia faccia riflessa nella vetrina di un negozio e vedo con orrore che sto sorridendo». La classica dea Mnemosyne ha una nuova ancella: Fotografia, che si aggiunge a Scrittura, Pittura, Canto … e le contagia di nuove esigenze estetiche: rapidità, taglio, durata in un tempo altro ancora da declinare. Virginia Woolf scatta – ossia scrive – «istantanee» del giovane Christopher, fermo sulla soglia della Hogarth Press, con quel fisico eccezionale, basso e snello jockeylike, che esita a entrare in scena, pur promettendo: «ce la faremo».
Isherwood è uomo di teatro e di cinema, e non ha problemi a inserirsi come personaggio nel suo delizioso, indefinibile, romanzo, o meglio cronaca in diretta, sul fare/ non facendo un film di successo, La violetta del Prater, scritto nel 1945 quando è appena iniziata la sua immersione nel mondo iridescente del Vedanta. Esce nel 1988 da Einaudi con l’introduzione di Manganelli, affascinato da quella pericolante congerie di testi brevi ed effimeri: telefonate, scene, scenate, sceneggiature approvate e poi disapprovate e ancora approvate.
E su tutto l’orgoglioso popolo dei cineasti – dal burrascoso grande regista all’onnipotente produttore, a tecnici, ispettori, attori, amici e nemici – emerge l’arte del mellifluo «Chris», il personaggio che rappresenta l’autore stesso, e regge quel mondo instabile sulla sua indiscussa anche se tacita superiorità. Chris è schivo parente del melvilliano Bartleby. Trema sulla soglia, non approva anche se non nega la sua muta empatia a tutto e a tutti.
Non emette condanna o approvazione, e il suo inviolato silenzio opera l’incantesimo sperato: non separa i detrattori dagli ammiratori, e così salva l’onore e l’impresa. Manganelli coglie la palla al balzo, e non si lascia sfuggire l’occasione di aggiungere il suo sonoro alla ‘camera’: «Se Isherwood scrivesse musica, la sua predilezione andrebbe ai fiati: romanzi per oboe, per clarinetto, per corno di bassetto. Il corno di bassetto è aereo di quella ariosità serale e boschiva che s’accompagna ad una solitudine insieme pittoresca e irreparabile; un precario sorriso custodisce una delicata risonanza, l’allucinazione dell’eco, una sonorità pensosa, e insieme elegante; la sonorità delicata di una angoscia ostinata ma inafferrabile; l’imprecisa cattivante angoscia dell’esistenza. È forse il corno di bassetto lo strumento metaforico di questa Violetta del Prater…» (testo riproposto come «Nota» nell’edizione adelphiana del 2011).
Nel 1930 era impossibile per un giovane sensibile e ambizioso non interessarsi di politica, di quanto succedeva in Germania, in Italia, in Spagna. Non si poteva continuare a discutere tra amici di idee, relazioni personali, estetica… «Leggevano Marx. Divennero comunisti. Divennero antifascisti» scrisse Virginia Woolf nel 1940.
Randall Stevenson la cita nel saggio Modernist Fiction An Introduction (1992), dove evidenzia la diversità di quei giovani, educati non a Eton, Cambridge, Oxford come i loro grandi maestri modernisti, ma nella scuola pubblica, non eredi naturali della ricca tradizione culturale e di una solida posizione di classe. Di necessità furono esploratori di nuovi realismi, strategie narrative, ideologie – come Isherwood, reporter di guerra con l’amico Auden, pacifista, gay, buddista, oltre che drammaturgo e cineasta, artista del fare/facendo che sa centrare la matrice creativa a occhi chiusi.
In aiuto degli aspiranti romanzieri venne un intelligente manuale che insegnò il mestiere dei grandi scrittori realisti dei due secoli precedenti: la tradizionale struttura del romanzo inglese e la sua felice leggibilità. E.M. Forster, amico e affine di Isherwood, romanziere di successo (menzionato a pag. 121 del Mondo di sera) offrì il prezioso contributo della sua esperienza in Aspects of the Novel (1927) – che ebbe fortuna poi anche in Italia.
Dopo una lunga elaborazione, Isherwood terminò un ambizioso romanzo nel 1954, appunto Il mondo di sera, ora tradotto in italiano per la prima volta da Laura Noulian (Adelphi «Fabula», pp. 394, € 21,00). Dimentichiamo il gentile Chris e l’allegra brigata dei filmmakers per un nuovo doppio dell’autore, il mondano, ricchissimo protagonista Stephen Monk (allusione alla sua fede buddista), giacca bianca, cravatta a farfalla, stretta fascia moirée, garofano in tinta. Monk è marito, molto più giovane ma devoto, della grande scrittrice Elizabeth Rydal.
Il mondo di sera è il titolo del romanzo scritto da lei prima di scomparire, permettendo al vedovo di sposare la bellissima, indecifrabile Jane. Stephen, «altezzoso edonista mezzo europeizzato, con l’accento inglese» – come appariva lo stesso Isherwood nel suo fortunato esilio californiano – è ideologicamente cambiato. Non più gay ma etero, non più sesso libero ma matrimonio, anzi forse tre matrimoni, gelosia meschina invece che fedeltà e fiducia. Uno sfortunato incidente lo immobilizza a letto con una gamba ingessata, e un sospetto di putrefazione, fisica ma forse anche morale. Dal suo trono di grande invalido guadagna la funzione di regista in una serie di bei dialoghi con personaggi femminili, tipi unidimensionali, che abiterebbero l’inconscio del maschio gay. Figure archetipiche come la Madre, l’Amante, la Strega… e loro modeste varianti. Il romanziere è stato salvato dall’uomo di teatro. A battere a macchina il massiccio scartafaccio era stato l’amico di trent’anni più giovane di Christopher, Don Bachardy, affettuosamente chiamato «il prostituto bambino».
Il capolavoro arrivò nel 1964, Un uomo solo. Vita e morte del professore Stephen nel giro spietato di un giorno glorioso in braccio al piacere e una notte in cui avviene, inaspettato, l’ammutinamento e il crollo della macchina corporea. Romanzo breve, perfetto, costruito sull’unità di tempo luogo, azione, atmosfera – quella della California felix degli anni del camp. «Nel camp non ridi di qualcosa, ma per qualcosa. Esprimi ciò che sia importante per te in termini di divertimento, artificio, eleganza» (Isherwood). Chris e Don si scrissero lettere per anni sotto la copertura di identità animali: il vecchio ronzino Dobbin, gran lavoratore, e il gattino Kitty, grazioso e imprevedibile, pubblicate postume nel 2014, Animals: Love Letters.
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