Chitra Ganesh, unica, via dagli sguardi
Intervista L'artista statunitense di origini indiane racconta il suo lavoro dal suo studio di Brooklyn, in occasione di una monografia dedicata a lei
Intervista L'artista statunitense di origini indiane racconta il suo lavoro dal suo studio di Brooklyn, in occasione di una monografia dedicata a lei
Sessualità e potere nel ribaltamento dei tradizionali ruoli di genere, tra immaginifiche rivisitazioni degli archetipi femminili nell’iconografia popolare dell’Asia meridionale, visioni fantascientifiche enfatizzate da colori psichedelici e teoria sociologica queer sono al centro di tutto il lavoro di Chitra Ganesh (Brooklyn, New York 1975). L’artista di origine indiana ci riceve nel suo studio, in un brownstone di Brooklyn, per parlare dei progetti più recenti inclusa la monografia Chitra Ganesh (Distanz, giugno 2024) che ha preso forma dal 2022 in occasione della sua mostra antologica alla Contemporary Calgary con un grant del Canada Council of the Arts. Ad accompagnare una selezione dei lavori realizzati dal 2013 al 2023, i testi di Natasha Bissonauth, Gayatri Gopinath, Saisha Grayson, Tausif Noor, Svati Shah e Ksenia Soboleva.
Dopo la recente personale Away From the Watcher alla Hales Gallery di New York, Ganesh espone una nuova serie di dipinti alla Gallery Wendi Noris di San Francisco (Chitra Ganesh. Tiger in the Looking Glass dal 13 settembre al 26 ottobre) e alla Bangkok Art Biennale 2024 (24 ottobre-25 febbraio 2025). Nel frattempo sugli schermi della Moynihan Hall della Penn Station a New York viene proiettata l’animazione Coherence (2024), realizzata nell’ambito del progetto di arte pubblica Art at Amtrak.
Icone popolari, religiose e mitologiche dell’India e dell’Asia del Sud sono centrali nel tuo lavoro di destrutturazione e riscrittura in cui evidenzi i limiti e le tossicità di una visione maschilista, patriarcale e binaria. Qual è stata l’urgenza nel dare voce a donne e queer con un linguaggio multidisciplinare che spazia dal disegno alla pittura, dal collage digitale all’animazione e all’installazione?
Dal mio punto di vista non è stata necessariamente un’urgenza, essendo cresciuta in una comunità di immigrati dentro una cornice dominata essenzialmente da americani bianchi, ho notato che le immagini presenti nella mia cultura visiva domestica e d’origine erano per lo più assenti nella corrente principale. Fin dalla giovinezza sono stata molto sensibile rispetto a quest’assenza e alla sua falsa rappresentazione. Sono cresciuta durante la guerra Iran-Iraq e ho vissuto tutte quelle crisi che hanno visto interventi americani in America Centrale o nel Medio Oriente, guerre in cui quelli classificati come gli altri venivano rappresentati o immaginati attraverso la cultura dei mass media. Ho notato che c’era una grande discrepanza tra quell’immaginazione degli altri e l’esperienza attuale che io stessa avevo avuto vivendo in una determinata cornice culturale. Come molti altri artisti volevo creare le immagini che pensavo che potessero rappresentare il mondo ma che non vedevo, o magari prendere delle immagini familiari e farle diventare sconosciute perché potessero essere viste diversamente e riflettere la mia prospettiva. L’urgenza si è deterimanata perché oggi abbiamo più crisi a livello globale che in passato con polarizzazioni politiche e la stratificazione economica. Per me, comunque, si è trattato di attingere a qualcosa che ho sempre visto e provare a considerarlo da altri angoli anche psicologici e politici.
Usare una palette di colori vibranti rafforza il concetto? Colori che provengono dal contesto della quotidianità indiana e dai poster di Bollywood, ma soprattutto dai fumetti della casa editrice Amar Chitra Katha (ACK) fondata nel 1967 a Mumbai da Anant Pai che è stata e continua ad essere per te di grande ispirazione?
Penso che la palette di colori vibranti che uso nel mio lavoro sia diversa da quella originale dei fumetti di Amar Chitra Katha ma sovrapponibile, perché comunque i colori di questi fumetti sono simili a quelli che, ad esempio, leggevo qui negli Stati Uniti come Archie Comics, Marvel e Green Lanter. Colori che sono collegati alla storia e all’infanzia. Sicuramente questi colori vivaci fanno parte della cultura visiva quotidiana non solo in India, anche nell’Asia del sud e in molti paesi dell’occidente come il Messico. Credo che abbiano a che fare anche con la qualità della luce. Un’altra referenza nel mio lavoro è ai colori psichedelici. Il colore è un punto d’ingresso per riconsiderare qualcosa che è familiare in un modo diverso.
I colori vibranti sono il primo approccio all’animazione digitale Coherence alla Moynihan Train Hall della Penn Station…
Quest’animazione è associata al colore in una maniera immersiva, in particolare l’idea era quella della pratica meditativa della respirazione detta «coherence breathing» (respirazione coerente) che permette un allineamento del sistema nervoso. In un certo senso si tratta di entrare dentro di sé e misurare la temperatura del proprio spazio interiore. Il colore e l’ambiente che ho creato sono qualcosa di immersivo che spero che permetta all’osservatore di prendere le distanze dal tempo reale per entrare in un diverso spazio temporale. È anche un colore che crea un’interruzione rispetto a quello della pubblicità.
Quanto è stata importante nella tua formazione l’insegnamento di tua nonna a cucire, ricamare e disegnare «kolam» con la farina di riso?
È stato molto importante, soprattutto quando si cresce in una famiglia dove non ci sono artisti né una conoscenza dell’arte contemporanea. In contesti come questo restaurare una casa, cucire un indumento o mettere i fiori nel vaso diventa il modo in cui le persone hanno la loro prima interazione con l’estetica e con un certo tipo di pratica artistica. Nel mio lavoro attraverso e combino diversi media, come nelle opere che sono qui nello studio in cui uso il ricamo e il disegno con il gessetto, anche se non necessariamente nella forma che ho imparato.
Nel definire il tuo processo artistico in cui disegno e scrittura hanno un ruolo equivalente, quanto hanno influito i tuoi studi in letteratura comparata e semiotica?
Mi hanno influenzato molto. Per me la narrazione è importante, come credo che lo sia per l’umanità. Come esseri umani ci raccontiamo delle storie per dare senso a ciò che ci piace e che ci spaventa.
Quando studiavo letteratura comparata traducevo letteralmente. Credo che sia importante anche il fatto che sia cresciuta bilingue. La prima lingua che ho imparato è il Tamil, la lingua che parlavano i miei genitori a casa e con cui comunicavo con mia nonna. Il processo stesso della traduzione è qualcosa che ha influenzato il mio lavoro.
Nella tua «narrazione aperta di memoria, amore e perdita» – come l’hai definita in altri contesti – che importanza ha avuto nelle incisioni di «Sultana’s Dream», il testo scritto nel 1905 dalla scrittrice bengalese Rokeya Sakhhawat Hossain, attivista sociale e avvocata per i diritti delle donne?
Questo testo è una novella di poche pagine, ma ho pensato che fosse un terreno fertile per sviluppare il linguaggio visuale che si è aperto da solo. Anche quell’idea di vita utopica è veramente importante per la nostra memoria sociale e politica, pensando anche al modo in cui la narrativa di questa storia sostiene e enfatizza il valore dell’istruzione egualitaria. Qualcosa che è da tenere bene in mente soprattutto oggi, in cui c’è tantissima violenza nei confronti degli studenti ovunque nel mondo, certamente negli Stati Uniti e attualmente in Bangladesh.
Amnesia ed altre eroine dotate di poteri soprannaturali sono proiettate in un futuro distopico o arrivano dal passato remoto, muovendosi tra disastri apocalittici e conflitti geopolitici. Come riescono ad uscire dall’individualità e diventare un simbolo per l’intera collettività?
Uno dei modi in cui questi personaggi bypassano l’individualità è attraverso la struttura del mito. Secondo me che la storia mitologica non è necessariamente legata ad una sola persona ma ha caratteri universali. La mitologia fornisce una cornice di narrazioni collettive come la fantascienza, entrambe hanno una prospettiva più ampia sugli esseri umani. La potenza delle icone è l’essere molto specifiche ma anche globali, riconoscibili come pure anonime. Questa dualità è molto importante. Nel mio lavoro, comunque, l’uso dell’iconografia è più legato alla cultura che non alla religione.
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