La presidenza di Pedro Castillo in Perù è stata un succedersi di cedimenti. Il suo governo si è rivelato un disastro. Non però, come ha affermato l’aggressiva destra, e con lei i mass media peruviani, «a causa di un’imposizione di politiche sinistroidi» o «per la sua inclinazione dittatoriale». Tuttaltro. Il fallimento è una conseguenza della inesperienza del presidente-maestro rurale nelle manovre politiche. Per mancanza di un proprio partito e soprattutto di un progetto politico globale di paese, molto, troppo spesso, Castillo si è circondato e ha nominato in posti chiave – più di 80 ministri in meno di due anni – personaggi che poco avevano a che fare con le idee espresse nella sua campagna presidenziale.

In sostanza ha ceduto di fronte al brutale ricatto della destra e si è progressivamente spostato verso il centro, nel tentativo di difendersi dagli attacchi e dalle richieste di rimozione «per indegnità morale» ripetute dai suoi avversari politici – in primis da Keiko Fujimori – questi sì politici sperimentati e cinici.

CASTILLO HA RINUNCIATO a mobilitare le organizzazioni e i movimenti sociali e indigeni del Perù che avrebbero dovuto essere la sua principale base politica e la forza di pressione per imporre le riforme promesse – in primis della Costituzione. Quelle forze che oggi scendono in piazza per reintegrare Castillo alla presidenza, sciogliere il parlamento corrotto e riformare la Costituzione.
La responsabilità di questi errori non è solo sua, ma di una sinistra settaria, attrezzatasi per essere opposizione e incapace di unirsi per governare.

Questa è la prima lezione che i fatti del Perù indicano alle sinistre latinoamericane. Vincere una elezione presidenziale non garantisce per nulla la governabilità, perché il reale potere politico non risiede in una carica dello Stato. Senza un alto livello di organizzazione e coscienza cittadina e un progetto politico credibile non si tiene il potere. E fare concessioni continue alle destre può portare solo alla sconfitta. Un avvertimento per il presidente cileno Gabriel Boric, anche lui propenso ad accordi con il centro anche alle spalle del movimento che lo ha eletto.

«CONSIDERIAMO LAMENTABILE che per interesse delle élites economiche e politiche fin dall’inizio della presidenza legittima di Pedro Castillo si è mantenuto un clima di scontro e di ostilità fino ad indurlo a prendere decisioni che sono servite ai suoi avversari per consumare la sua destituzione». Fin dall’inizio il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha difeso Castillo come presidente eletto che il Parlamento peruviano «non aveva l’autorità di esautorare».

La sua linea è stata seguita poi dai leader dell’Alba, l’Alleanza bolivariana composta da dieci paesi tra cui Cuba, Venezuela e Bolivia, riuniti mercoledì all’Avana in un vertice straodinario. Quindi anche dai presidenti di Colombia e Argentina (quest’ultimo dopo vari tentennamenti). Tutti hanno dichiarato di considerare Castillo come presidente legittimo, nonostante il suo «passo falso» politico.

AMLO È STATO COSCIENTE fin dall’inizio che non è possibile costruire un’alleanza regionale di governi progressisti che costituisca una base efficace per trattare con gli Usa su una posizione di parità e a contrastare la politica egemomonica di Washington (la «dottrina Monroe» rinnovata da Trump) se non si è attrezzati a opporsi al lawfare come strumento per attaccare i governi progressisti che seguono questa linea.

La seconda lezione è che bisogna opporsi con decisione alla guerra politica attraverso una via giudiziaria e mediatica per interessi economico-politici occulti all’opinione pubblica. Un’arma politica letale usata in America latina, con l’appoggio degli Usa, per provocare un cambio di governo contro una lunga serie di presidenti di sinistra, da Fernando Lugo in Paraguay a Rafael Correa in Ecuador, a Dilma Roussef e Lula in Brasile e negli ultimi giorni contro Cristina Fernández de Kirchner in Argentina e Castillo in Perù. Ora basta.

NEL PROSSIMO VERTICE dei leader dell’America del Nord che si svolgerà a Città del Messico nella seconda settimana di gennaio, il presidente messicano intende presentarsi di fronte ai suoi interlocutori, il presidente Joe Biden e il premier canadese Justin Trudeau, come rappresentante di un’alleanza latinoamericana di governi che intendono utilizzare i beni del subcontinente per mettere fine alla disuguaglianza della regione e garantire la sovranità alimentare. Per questa ragione, Amlo ha proposto di rimandare la presidenza di turno dell’Alleanza del Pacifico (Messico, Colombia, Cile e Perù) che spettava al Perù.

La terza lezione, che nessuno aveva compreso, è che l’elezione di Castillo, un signor nessuno, aveva risvegliato nel paese la sensazione di un’utopia realizzabile. Tra le centinaia di migliaia di signor nessuno, nei villaggi contadini, nelle rondas campesinas, nelle organizzazioni tradizionali andine, ma anche nei quartieri poveri di Lima aveva posto il seme della possibilità di un cambiamento nel Perù governato da anni da politici corrotti. Stava cioè germinando la rivolta di questi giorni, che può trasformarsi in insurrezione.