Cosa passa, di una voce, quando è trasferita sulla carta; come descriverne il tono, senza percepirne il timbro, contentandosi di afferrarne tutt’al più il ritmo, la cadenza: questo l’enigma di fronte al quale ci si trova quando si vorrebbe restituire la connotazione inconfondibile di quel tipo speciale di scrittura che mette in campo non un narratore neutro, ma una soggettività più o meno caratteriale, inconfondibile con altre, per come suona al nostro orecchio. Se è vero, come è vero, che le tecniche narrative finiscono con il comunicare il sistema di valori dell’autore, tanto più questo succede quando il punto di vista su quanto accade nel testo coincide esclusivamente con quello della voce narrante – ciò che Gérard Genette chiamava focalizzazione interna fissa, vale a dire che quanto ci viene restituito, anche dei pensieri degli altri personaggi, passa sempre e solo al filtro dell’Io che parla. Proprio questo succede nel sorprendente romanzo di esordio della anglo-indiana Chetna Maroo, T, (traduzione di Gioia Guerzoni, Adelphi, pp. 148, euro 18,00) lettera che sta a indicare il centro di un campo da Squash, dove si giocano più o meno tutti i passaggi sportivi e emozionali della protagonista.

Scritto nella prima persona di una undicenne di nome Gopi, sorella minore di tre ragazze, la più grande delle quali ha quindici anni, T è quasi tutto ambientato nel cubo di Western Lane, il campo da gioco situato in un sobborgo londinese, che dà il titolo originale al romanzo: una pressoché muta elaborazione del lutto per la madre-moglie appena morta, da parte delle tre figlie e del marito. Che è un uomo semplice, venuto da Mombasa, dove conserva l’unico amico d’infanzia, al quale si permette (forse) di esprimere il suo dolore, nelle molte lettere che gli scrive.

Tutto ha inizio dopo la perdita
La dignità senza cedimenti dell’uomo si esprime in una rispettosa tenerezza per i suoi familiari e prima di tutto per le figlie, fatta di rarissime parole, alternate a espressioni facciali sobriamente severe e inequivocabilmente eloquenti. Tutta la trasposizione del pathos legato alla perdita, trova nel romanzo la strada dell’allenamento intensivo che il padre impone alle ragazze, delle quali solo Gopi, la più piccola, diventerà una fuoriclasse. «Papà era un convinto sostenitore della simulazione, e lo ero anch’io» – ricorda la bambina, riferendosi alle esercitazioni in cui la racchetta colpiva una palla immaginaria; ma è in realtà l’intero romanzo a offrirsi come sublimazione della perdita attraverso il gioco. Non a caso, infatti, la donna morta fuori scena si ripresenta alle allucinazioni della figlia più grande, e poi del marito, che dice di fare piccoli lavoretti per le case, perlopiù come elettricista; ma più spesso lo si indovina passeggiare lungamente per le strade dei dintorni, finché indefettibilmente approda ai campi di Western Lane, dove la concentrazione assoluta sui minimi movimenti dello Squash fa indietreggiare l’angoscia. Almeno fino all’ora di cena: «Cominciammo a riconoscere la presenza di mamma in casa non per esperienza diretta – non c’erano rumori, né contatti, né cambiamenti nell’aria – ma osservando papà. Gli brillavano gli occhi. Guardava qualcosa e noi sapevamo che la sua attenzione era rivolta a lei, che la stava ascoltando».

Sebbene le svolte del romanzo seguano fedelmente ciò che è prevedibile accada – fra figlie e padre, protagonista e primo amore, impedimenti e loro risoluzione – nulla di quanto viene riportato dall’Io narrante, perfettamente intonato alla voce di una undicenne, suona ovvio; e la tensione del romanzo fa sì che solo a posteriori chi legge realizzi di essere passato attraverso tutte le ricorrenti tappe della vita di una pre-adolescente. Non solo: l’ambientazione strettissima – fra le pareti domestiche di una famiglia jaina, e il rettangolo sempre uguale di un campo da Squash, dove si succedono gesti incomprensibili ai più – ha il fascino che sempre si sprigiona dalla tecnica del gioco, qualunque esso sia, i cui precedenti romanzeschi più riusciti, in età postmoderna, vanno dal Walter Tevis dello Spaccone e del Colore dei soldi, entrambi ambientati nel rettangolo di un tavolo da biliardo, ai libri di Gerald Murnane, tutti ossessivamente inscritti nel mondo dei cavalli da corsa.

Confini stretti, maggiore libertà
Come questi, l’esordio di Chetna Maroo conta sui confini angusti in cui è ambientato per sfidare le inclinazioni visionarie di chi legge. Anche il suono della prosa, fatta di frasi brevi, misurate, incisive, è scandito dagli intervalli di tempo tra un rimbalzo e l’altro della palla, a suggerire una sorta di ipnotica monodia: «Penso al suono della palla colpita da un tiro deciso, pulito. È un suono fulmineo e basso, come uno sparo, seguito da un’eco ravvicinata. L’eco della palla che batte sulla parete è più forte del colpo stesso».

E, ancora, quando Gopi ascolta, senza vederlo, il ragazzo del quale si innamorerà, mentre gioca di là dalla parete, è così che ne decodifica la presenza: «Fu allora che iniziò. Un ritmo costante e malinconico dall’altro campo, il colpo e l’eco, all’infinito, a suo modo liberatorio. Qualcuno si stava esercitando. E sapevo chi era. Rimasi in ascolto e quel suono penetrò in me, nei nervi e nelle ossa, e con la sensazione di essere stata salvata alzai la racchetta e servii».