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Che cosa resta della rivoluzione di piazza Tahrir

Che cosa resta della rivoluzione di piazza TahrirIl professor Asef Bayat

Egitto Intervista al docente ed esperto di rivoluzioni Asef Bayat, autore del libro «Revolution without revolutionaries»: «Nelle rivolte arabe l’obiettivo non è stato la trasformazione ma l’inclusione. Hanno però sprigionato risorse morali per alimentare nuove proteste»

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 25 gennaio 2019

Asef Bayat, docente di Sociologia all’università dell’Illinois, da giovanissimo durante la rivoluzione del 1979 ha girato in lungo e largo l’Iran per parlare con gli operai delle fabbriche occupate e autogestite. Nel 2017 è uscito il suo ultimo libro Revolution without revolutionaries, dove proprio alla luce delle rivoluzioni del Novecento, da intellettuale e da militante, avanza un bilancio critico delle primavere arabe. Quando lo contattiamo ci risponde dalla Tunisia, dove arriva proprio nel giorno del riuscitissimo sciopero generale.

Nel tuo ultimo libro sostieni che le rivolte arabe sono state mobilitazioni rivoluzionarie, ma con una traiettoria riformista. Puoi spiegare meglio questo paradosso?

Non c’è dubbio, il movimento rivoluzionario del 2011 è stato un fenomeno di portata straordinaria. L’esperienza di Tahrir in particolare (le sue innovative forme di mobilitazione, le pratiche democratiche, la sovranità spaziale) ha rappresentato l’emergere di un nuovo soggetto politico. La piazza si è affermata come una zona urbana liberata che prefigurava il tipo di sistema democratico a cui da sempre aspirano i rivoluzionari di tutto il mondo. La necessità profonda di unità e uguaglianza ha preso il posto degli interessi di parte. I manifestanti si sono uniti, diventando «il popolo». E questo «popolo» è riuscito a cacciare i dittatori. Eppure, ciò che è emerso dopo le dittature non è stato un nuovo ordine sociale e politico, ma una continuazione dei vecchi regimi. Questo intendo quando dico che la primavera araba è stata rivoluzionaria in quanto movimento, ma riformista in termini di cambiamento realizzato.

Per decenni i rivoluzionari hanno avuto come obiettivo la distruzione del potere statale e la costruzione di nuove relazioni sociali ed economiche. Invece nelle primavere arabe il fine ultimo degli attivisti sembra essere stato semplicemente un miglioramento dell’esistente. Come è stato possibile questo cambiamento epocale?

Nelle rivolte arabe sembra che i protagonisti avessero come obiettivo non la trasformazione ma l’inclusione, non stravolgere il vecchio ordine economico o politico, ma riformarlo per entrarne a far parte. Gli attivisti non pensavano negli stessi termini delle rivoluzioni che hanno caratterizzato il secolo scorso. Al posto di idee forti come socialismo, giustizia sociale, eguaglianza, redistribuzione, welfare state e rivoluzione, dopo la guerra fredda il mondo ha assistito alla rapida diffusione dell’idea di individuo, delle organizzazioni non-governative, della società civile, del libero mercato, della competizione e del riformismo. Il neoliberismo ha trovato terreno fertile per diventare l’ideologia dei tempi post-socialisti. Le rivolte arabe dunque sono esplose in un periodo ideologico in cui a livello globale l’idea stessa della rivoluzione era scomparsa.

Dopo l’evidente fallimento delle rivolte quasi ovunque, la sinistra nel mondo arabo come sta ripensando l’organizzazione, la strategia, i programmi? E dove avviene questo dibattito?

Oggi c’è sicuramente un senso di sconfitta e disillusione tra gli attivisti, anche a sinistra. Ma la memoria della rivolta continua a essere viva. In tanti stanno ripensando, leggendo, discutendo e scrivendo nelle sedi in cui hanno l’opportunità di farlo. La sinistra esiste non solo sotto forma di partiti e organizzazioni, ma anche nei tanti individui dispersi che lavorano e hanno un impatto in diversi ambiti (nelle istituzioni statali, nella sfera culturale, nell’arte e nella società civile). In Tunisia, dove la rivoluzione ha portato libertà di espressione e associazione, gli attivisti di sinistra sono parte di vari movimenti sociali, nuove ong, iniziative culturali, e animano i dibattiti nella sfera pubblica, sulla stampa e nei social media. In Egitto le cose sono più difficili a causa della repressione. C’è poi un proliferare di gruppi in esilio che non solo cercano di sopravvivere in terra straniera (a New York, Berlino, Istanbul o Doha), ma tentano anche di collegarsi tra di loro, con altre comunità di esuli politici provenienti da Turchia, Siria o Iran, e con le sinistre dei paesi che li ospitano. Alcuni si occupano di letteratura, arte, teatro, scuola, e tutti in qualche modo si sforzano di pensare e riflettere su quello che è successo, sul perché le cose sono andate a finire così.

Uno degli elementi che più colpisce della rivolta in Egitto è la mancata comparsa (tranne in rarissimi casi) di comitati indipendenti di lavoratori, che si affermano spesso invece nelle insurrezioni rivoluzionarie. Perché secondo te?

È vero, molte rivoluzioni del ventesimo secolo hanno provocato la nascita di diverse forme di autogestione, nelle campagne, nelle università, nei quartieri e nelle fabbriche, come i comitati o i consigli. Nelle rivoluzioni arabe ci sono state poche esperienze del genere. Anche se dal basso in Tunisia e in Egitto gli operai e i contadini hanno tentato iniziative simili, questi non hanno ricevuto il necessario sostegno organizzativo e ideologico. La classe politica non era sintonizzata su queste esperienze radicali e non ha prestato alcun appoggio significativo. C’è stato un divario tra l’impulso radicale delle classi subalterne e la classe politica. Anche se gli attivisti hanno usato il linguaggio della «giustizia sociale» questo concetto è rimasto senza alcuna base strategica o programmatica.

Come si è verificato questo scollamento?

La professionalizzazione, o meglio la «Ong-izzazione» del lavoro politico ha sottratto molti, soprattutto giovani, all’educazione politica. Il cambiamento si è verificato quando dopo la guerra fredda c’è stata una proliferazione di organizzazioni non governative, presentate come un’alternativa alla burocrazia dello Stato e come strumento di democratizzazione e sviluppo. In effetti alcuni attivisti, soprattutto sotto i regimi più oppressivi, hanno usato le ong come veicoli per lanciare movimenti sociali. Ma la maggior parte delle ong hanno finito per fare della politica una questione tecnica creando così una nuova classe di professionisti, esperti di contabilità e fundraising.

Nei tuoi scritti parli anche di speranza e disillusione. Cosa resta delle esperienze vissute da milioni di egiziani, tunisini, siriani?

Le rivoluzioni non sono soltanto una questione di cambiamenti di regime, per quanto questo aspetto sia essenziale. È comprensibile che il fallimento su questo piano abbia scoraggiato molti di coloro che avevano riposto grandi speranze nel futuro dei propri paesi. Ma le rivoluzioni sono anche ciò che accade alla base della società, tra la gente comune, nella vita quotidiana. La storia delle rivoluzioni è incompleta se non si comprende e non si racconta ciò che queste hanno significato nel pensiero e nella vita dei gruppi subalterni. Per molti di coloro che vi hanno partecipato, le rivoluzioni sono state un evento nel senso inteso da Alain Badiou, cioè avvenimenti sociali che hanno creato nuove visioni, hanno aperto nuove prospettive per vedere e immaginare le cose. Chi le ha vissute ha sperimentato una sensazione nuova, per quanto fugace, di libertà. Queste esperienze e memorie sono tra gli elementi essenziali di quelle «risorse morali» da impiegare al momento opportuno quando emergeranno nuovi cicli di protesta.

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