Charlotte Brontë, delicati equilibri di una prosa radicata nella middle-class
Pubblicato nel 1847 a firma di un ignoto Currer Bell – intorno alla cui identità di genere si scatenò presto la curiosità dei recensori – Jane Eyre di Charlotte Brontë è senz’altro il classico più conosciuto e acclamato tra quelli che hanno contribuito a seminare un’idea di inglesità spiccatamente territoriale e capace di armonizzare ordine e ribellione. Uno studio condotto dall’Università di Liverpool nel 2021 ha mappato seicentosessant’otto traduzioni in sessantadue lingue, delle quali centrotrenta soltanto in cinese. A tanta effervescenza traduttiva sembra essersi sottratta l’Africa, dove sono apparse soltanto sei traduzioni in arabo e una in amarico (Etiopia) e dove il romanzo non è entrato nei curricula scolastici per opposti motivi: troppo smaccatamente sentimentale per le autorità coloniali; troppo subdolamente orientalista per sistemi educativi impegnati a decolonizzare le menti delle nuove generazioni di cittadini africani.
Non stupisce più di tanto che, a differenza di quasi tutti i paesi europei, la prima traduzione italiana arrivi soltanto nel 1904: un ritardo di quasi sessant’anni che sottolinea la lontananza dell’Italia ottocentesca da snodi nevralgici della modernità come la questione femminile e quella razziale. Non soltanto, infatti, Jane Eyre rivendicava il diritto all’istruzione, alla libertà e alla felicità, estendendo alle donne quell’idea illuminista di individuo sovrano che era pienamente maturata soltanto in Francia e in Inghilterra. Il bestseller di Charlotte Brontë presentava altresì una struttura narrativa nella quale, come illustra un celebre saggio di Gayatri Spivak, la conquista dello spazio sociale realizzata dalla donna europea si intrecciava alla storia dell’impero, in quanto direttamente e violentemente collegata alla rimozione letterale e simbolica della non europea.
Tra passione e controllo
A ogni modo, dagli anni Sessanta Jane Eyre è entrato a pieno titolo nei cataloghi dei principali editori italiani e nei programmi universitari, con un’impennata di traduzioni dagli anni Novanta corredate da continue ristampe (1995 Garzanti e Newton&Compton, 2004 Mondadori, 2008 Einaudi, 2011 Dalai Editore, 2014 Feltrinelli e Neri Pozza). L’ultima della serie ha appena visto la luce nella collana Einaudi «Le grandi traduzioni» – Jane Eyre (a cura di Giulia Boringhieri, pp. 513, € 22,00). Originariamente presentato come l’autobiografia di una talentuosa istitutrice che si fa strada nel mondo grazie a doti personali – acume, cultura, resilienza e rigore morale – l’esordio di Charlotte Brontë è un avvincente Bildungsroman che rielabora materiali autobiografici, mescolando elementi di realismo sociale a episodi melodrammatici illustrati con accenti gotici e fiabeschi.
Sebbene non sia la prima fanciulla sventurata e risoluta del romanzo inglese a essere ricompensata dalla sorte (le antesignane sono Pamela di Richardson e Fanny Price di Austen), Jane è senz’altro quella il cui tormentato equilibrio tra responsabilità e felicità, controllo e passione, si fa vera e propria dominante del racconto, e il cui destino finale preserva una quota di ambiguità che non viene dissolta dall’happy ending. Brontë mostra come, nella genealogia del soggetto moderno, autorizzare il desiderio sia altrettanto importante del saperlo disciplinare, e orchestra un finale che ricuce patrimonio e matrimonio, convenzione ed emozione, individuo e comunità, al prezzo, nondimeno, di un sostanziale ridimensionamento delle capacità espansive sia dell’eroe sia dell’eroina. Tanto è bastato a rendere Jane Eyre un classico della letteratura mondiale.
Comprensibilmente, l’oscillare del testo tra istanze rivoluzionarie e complicità patriarcali non ha mancato di suscitare le perplessità delle prime femministe. Virginia Woolf criticò il romanzo per gli eccessi emotivi e per la ristrettezza del punto di vista di Jane-Charlotte, riconoscendo, tuttavia, proprio in quella limitatezza un dispositivo narrativo profondamente originale, basato su una funzione espressiva assoluta, indipendente cioè dalla finezza psicologica del racconto ‘al femminile’, così come dalla tenue «curiosità speculativa» dell’autrice. Charlotte – scrive Woolf in «Jane Eyre and Wuthering Heights» – «non prova a risolvere i problemi della vita umana; è persino inconsapevole della loro esistenza; tutta la sua forza, una forza ancora più tremenda in quanto repressa, va nell’asserzione, ‘amo’, ‘odio’, ‘soffro’».
In effetti, il romanzo sembra minare il proprio stesso radicalismo ogniqualvolta la rivendicazione dell’uguaglianza intellettuale e spirituale di Jane nei confronti di Edward Rochester (suo datore di lavoro) si traduce nell’espressione più o meno sublimata di una passione che rischia di compromettere le istanze di libertà della giovane istitutrice. Più che non nella leggenda di un’estetica femminista avant la lettre, è in questa aporia del desiderio femminile – emendato spostandone gli aspetti perturbanti sull’Altra razziale (Bertha Mason) – che è da rintracciarsi il motivo del successo planetario di Jane Eyre.
Un mito «glocal»
L’altra faccia della medaglia è che il capitale culturale accumulato da un classico popolare (ovvero più accessibile di altri per trame e linguaggio) come Jane Eyre rischia di alimentare un mercato editoriale pletorico, che incentiva traduzioni ripetitive o, peggio, la ricerca di una cifra stilistica non alla portata di tutti coloro che traducono. Il lavoro firmato da Giulia Boringhieri risente di entrambe le tendenze: in linea con la narrazione retrospettiva e con l’andamento evolutivo caratteristico del romanzo di formazione, la traduttrice correttamente mira a far emergere la doppia voce della protagonista che matura nel tempo. Tuttavia, quanto a mezzi adottati, in alcuni momenti viene accentuato il tono informale attraverso colloquialismi talvolta poco accurati, che sono assenti dall’originale e puntano ad attualizzarlo («manco a dirlo», «non ci capivo un’acca», «darsela a gambe» anziché «fare i bagagli»). In altri passaggi, invece, viene innalzato il registro con termini desueti che antichizzano lo stile medio del testo («malagrazia», «impudenza», «magione», «monitrici», «ordunque», «orbene», «busbacchi»), alterando il delicato bilanciamento di codice realistico e codice favolistico nel quale risiede la bellezza di questa prosa vivida e intrinsecamente middle-class.
Più accurata ed efficace è la resa delle suggestioni atmosferiche che richiamano la pittura di Constable e Turner e che hanno generato il mito romantico delle sorelle Brontë in osmosi con le tempestose brughiere dell’Inghilterra settentrionale. Un mito profondamente ‘glocal’, alimentato dalle morti premature di tutti i membri della famiglia, e oggi più che mai in sintonia con una sensibilità ambientale che riconduce alla natura – né benigna né matrigna, semplicemente vitale – gran parte dei destini umani.
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