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Cercando la «cosa» chiamata comunismo

Cercando la «cosa» chiamata comunismo

Una grande storia Alla larga dal socialismo reale e dalla conversione neoliberale delle socialdemocrazie

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 24 settembre 2020

Era solita, Rossana, metterti Ko, più con le domande che con le risposte. Quanti articoli, quanti interventi si concludevano con quelle grandi questioni, (la rivoluzione, i rapporti di classe, il conflitto tra capitale e lavoro, l’interpretazione della storia e la previsione del suo corso) sulle quali chiamava tutti a cimentarsi. Lei risposte non ne dava, ma comunque sospingeva i suoi lettori e interlocutori a confrontarsi con quei nodi ardui e decisivi. Seguiva, sovente, un attonito silenzio e Rossana ne desumeva di non essere stata presa abbastanza sul serio.

Spirito libero e comunismo, molti nel ricordarla si soffermano su questo connubio, vuoi per sottolinearne la singolarità «contronatura», vuoi per dimostrarne la possibilità implicita. Rossana si stupirebbe di tanto risibile «mistero». Da marxista convinta era saldamente ancorata all’orizzonte politico-teorico tracciato dall’insieme dell’opera di Marx, attraversato da una radicale pretesa di libertà, tanto da non accontentarsi delle sue condizioni formali e men che meno delle sue riduzioni liberoscambiste.

Ed è proprio quel pensiero, quello strumentario teorico a indirizzare verso la ricerca di una cosa chiamata comunismo e, al tempo stesso, a tenerci alla larga dalle sue più nefaste incarnazioni quali furono quelle mostruose superfetazioni dello stato e del lavoro salariato che caratterizzarono il cosiddetto socialismo reale. Ma anche a non mandar giù la conversione neoliberale delle socialdemocrazie e il conseguente abbandono degli sfruttati. Unico tema rimasto sul campo dopo il collasso dell’impero sovietico. E’ sempre attraverso la griglia della critica marxista (nella sua accezione radicalmente antidottrinaria) che Rossana passava al vaglio eventi, punti di vista e posizioni politiche.

E intratteneva anche un costante e a volte aspro dialogo con quanti si situavano in quell’orizzonte teorico pur provenendo da esperienze del tutto diverse (talvolta ostili) dalla sua che aveva attraversato la guerra e il Partito comunista di Togliatti.  Nell’89, con la caduta del muro , queste diversità andarono accentuandosi e accalorandosi.

Non ebbe torto Rossana allora a prevedere che quel collasso non avrebbe lasciato spazio a un approfondimento della democrazia e men che meno a un nuovo originale modello di sviluppo, come molti di noi avevano sperato. Eppure i regimi dell’Est, poi autoproclamatisi «democrazie illiberali», non dovevano forse la loro affermazione politica più all’eredità del socialismo reale che alle lusinghe e allo scintillio del libero mercato? Gli Orbán, i Putin, i Kaczynski non rappresentano forse (non solo, certamente) il detestabile lascito del sistema di potere e di controllo sociale cresciuto al riparo della cortina di ferro?

La rottura del gruppo del Manifesto con quelle realtà non ha solo il valore di un giudizio storico, ma rappresenta un punto di vista politico che il nuovo secolo rende tutt’altro che superfluo. Su questo e su molto altro il confronto con Rossana, con i suoi scritti e le sue prese di posizione, può e deve continuare. Non è cosa che riguardi solo il tempo passato. Non è, la sua, un’ intelligenza da omaggiare senza continuare a farci i conti, a raccoglierne le sfide.

A un certo punto, negli anni ’90, Rossana propose di rimuovere dalla testata del giornale la dicitura «quotidiano comunista». Il Pci, il socialismo reale, tutto quello a cui quella orgogliosa rivendicazione non intendeva lasciare libero il campo non esistevano più. Le pareva ormai un elemento ridondante, una semplicistica consolazione identitaria. Non bastava quel “manifesto” che richiamava il suo nobile antenato del 1848 ? E poi il valore, il senso, lo schieramento dei contenuti del giornale che avrebbero dovuto dare corpo a una idea di società?

Luigi Pintor non era in disaccordo, ma sostenne che spiegare quella rimozione sarebbe stato molto, troppo complicato. E, tuttavia, forse sarebbe valsa la pena di compierlo quello sforzo in un momento in cui molto doveva essere ripensato, anche per liberare quell’idea dalle patologie che l’avevano corrosa.

A Rossana, ora che non è più fra noi, vorrei dedicare il ritornello di una vecchia canzone di Wolf Biermann, Der Hugenottenfriedhof (il cimitero degli ugonotti di Berlino, allora ancora Est, dove sono sepolti Hegel e Brecht) : «Quanto vicini ci sono alcuni che sono morti, quanto lontani alcuni che vivono ancora». Una vicinanza che non è solo rimpianto.

 

  • La ricorderemo in piazza Santi Apostoli a Roma oggi dalle 17.30, anche in diretta streaming 

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