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Céline, paradossi e scene di malavita londinese

Céline, paradossi e scene di malavita londineseAndré Derain, «Regent Street», 1906

Novecento francese Cominciato nel 1930, poi abbandonato, «Londres» è il secondo inedito dell’autore del «Voyage»: un abbozzo poi ricombinato in «Guignol’s band I», al filtro di uno stile radicalmente diverso. Ora da Gallimard

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

La storia degli inediti di Céline, ricomparsi nell’agosto del 2021, ha ormai perso, almeno in parte, il suo alone di mistero. La racconta il protagonista, Jean-Pierre Thibaudat, in un libretto, Louis-Ferdinand Céline, le trésor retrouvé (Allia, pp. 128, € 9,00), il cui interesse non è solo documentario: l’ex critico teatrale di «Libération», per decenni depositario dei quasi seimila fogli manoscritti conservati (non rubati!) da un dirigente della Resistenza, Yvon Morandat, descrive con passione il corpus che ha pazientemente trascritto, in segreto, per anni; e ne racconta la storia, fino alla recente battaglia legale con gli avidi eredi della vedova dello scrittore. A ogni pagina, traspare la sobria indignazione di chi avrebbe voluto destinare il «tesoro» agli archivi pubblici; e con coerenza ha scelto di devolvere i proventi delle vendite del suo volumetto a una Onlus che si occupa di accoglienza ai migranti.

Il resto di «Casse-pipe»?
Purtroppo, manca dalle carte ritrovate il romanzo di cui Céline, nel secondo dopoguerra, ha più spesso e rumorosamente denunciato il «furto»: di Casse-pipe sono infatti ricomparsi solo pochi abbozzi, non le centinaia di pagine compiute di cui parlava l’autore. E dunque: Céline, come a volte gli è capitato di fare, si compiaceva nell’iperbole? O il vero «tesoro» è ancora disperso, magari fra le colline della Corsica, come alcuni indizi lascerebbero supporre? E d’altra parte: vale anche per i manoscritti inopinatamente riemersi nel 2021 la rinuncia all’eredità da parte della figlia naturale del romanziere? Se per Colette, alla morte del padre, nel 1961, ha prevalso la paura dei debiti, oggi i suoi discendenti non escludono – pare – di rivolgersi a un tribunale. Insomma Céline, in Francia, continua a essere sotto i riflettori dell’attualità: e non solo perché il primo inedito pubblicato da Gallimard, Guerre, è stato fra i best seller dell’estate (si avvia verso le 200.000 copie vendute), dando vita a un dibattito filologico curiosamente ‘asimmetrico’ – perché pochissimi hanno avuto accesso alle carte; e chi ha provato a dimostrare che gli sconcertanti, splendidi frammenti sulla convalescenza di Ferdinand nelle Fiandre sono abbozzi di Viaggio al termine della notte – non un romanzo autonomo, come pretende l’editore – ha dovuto lavorare per ipotesi e indizi.

Da poche settimane è arrivato in libreria il secondo inedito, il corposo Londres (a cura di Régis Tettamanzi, Gallimard, pp. 576, € 24,00), al tempo stesso meno problematico e meno interessante di Guerre. Stavolta il titolo è di mano di Céline, come la divisione in tre parti; nella prima, ci sono pagine aggiunte e rielaborate (ma il curatore non specifica quali); la seconda e la terza – dove abbondano ripetizioni, contraddizioni, sciatterie – sono evidentemente un abbozzo, scritto di getto e mai corretto. Sicuramente iniziato nel 1930, quando Céline dichiara a Joseph Garcin l’intenzione di inserire nel Viaggio un episodio inglese, e gli chiede informazioni dettagliate sull’ambiente della malavita francese a Londra, il manoscritto è stato ripreso intorno al 1934 (c’è un’allusione al successo del primo romanzo), e poi lasciato in un cassetto.

Dieci anni dopo, nel ’44, la materia londinese avrebbe trovato una sua prima sistemazione autorizzata dall’autore in Guignol’s band I, un romanzo che riprende alcuni personaggi e molti temi di Londres (prostituzione, droga, violenza, sesso), ma in una forma quasi irriconoscibile. Se infatti Londres affastella episodi dalle tinte forti, con un gusto del rincaro, una logica seriale e una trasparenza mimetica di marca ancora ottocentesca (prevale la violenza, mentre la pornografia è più spesso evocata che inscenata), in Guignol’s band I la stessa materia sarà selezionata, ricombinata e soprattutto presentata attraverso un filtro linguistico e stilistico radicalmente diverso: i famosi tre puntini, la frammentazione della frase e delle scene, la mimesi stilizzata dell’oralità, esibita nei frequentissimi dialoghi, inaugureranno la stagione dell’ultimo Céline – il più maturo e moderno secondo alcuni, il più oscuro e sfrangiato secondo altri; di sicuro il più soggettivo e delirante, il più incline a proiettare su biografia e storia le ossessioni di una psiche ferita.

Nell’abbozzo abbandonato da Céline e ripubblicato da Gallimard come se fosse un romanzo autonomo, si moltiplicano aneddoti e macchiette; e in un mondo di papponi, prostitute, rivoluzionari falliti e disertori (gli echi dal fronte della Grande Guerra, oltre Manica, incombono su tutta la vicenda), il personaggio meno abietto è forse il medico ebreo Yugenbitz, che peraltro cambia nome a più riprese nel manoscritto: all’inizio è Etrosohn, qualcosa come «Figlio di Stronzo». Ferdinand gli attribuisce il merito di aver fatto nascere la sua vocazione medica; e tanto basta al prefatore per minimizzare e sfumare il razzismo di Céline. Del resto, Tettamanzi ha pubblicato anni fa i pamphlets antisemiti, per un piccolo editore di destra, in Québec, con l’eufemistico titolo di Écrits polémiques, Scritti polemici (nel 2017, un analogo progetto per Gallimard è stato prudenzialmente «sospeso», mai però annullato). Ora, il paradosso è figura principe nell’immaginario dello scrittore: che il comprimario meno ributtante appartenga al popolo che Céline considera il più ignobile è logica conferma del degrado degli umani, di cui la guerra è il più evidente epifenomeno.

Del resto, in Londres l’antisemitismo (come la misoginia) è a più riprese esibito. Ci sono frasi che non abbisognano di commento: le prostitute più abili «belle muscolose come sono, di sicuro troveranno, più tardi, un ebreo disposto a bere il loro piscio a caro prezzo». Altri passi dicono invece moltissimo sull’ideologia e sulla poetica di Céline: «quel che gli piace in Marx, te lo dico io, è il gigante di orgoglio, qualcosa come Victor Hugo, però ebreino (youpin), capisci cosa voglio dire, un romantico delirante, ma con cifre e calcoli precisi. Che tristezza!» (parla Borokrom, un anarchico russo alcolizzato).

Sintesi di retorica romantica e interesse piccolo-borghese, di vacuo idealismo e meschinità bottegaia, Marx incarna qui l’origine culturale di ogni male, cui il materialismo disincantato del medico Céline contrappone la nudità della vita, l’elementare resistenza del corpo, in uno dei passi più belli del libro – disperse in un contesto prolisso, abborracciato e alla fine un po’ noioso, non mancano in Londres pagine memorabili.

Mangiare la vita
Angèle, la moglie-prostituta di Ferdinand, è stata colpita in testa da Moncul (nome parlante) con una bottiglia; finirà i suoi giorni in un asilo per alienati, nonostante il primo soccorso portato dal protagonista: «Baciavo le piaghe della mia Angèle. Questo mi piace. Non è mica proibito, no? Io non ce l’ho l’amore, come gli altri. Non ne so niente di quella roba lì. Voglio la cosa calda in bocca, voglio mangiare la vita, io. Tutto il resto, me ne fotto. Crimine o non crimine, sono parole vuote, roba da stitici, solo scuse per anime accartocciate. A prender quel che viene quando c’è sangue, uno mangia tutto, quel che soffre, sborra, piscia, caga, tutto. Quel che urla, è tumefatto, suppura, puzza, tutto quello che non osa, si nasconde, tradisce, tutto quel che ancora può provocare un lamento, ancora una volta, anche una soltanto. Proprio questo grido, forse, sarà quello che solleverà il mondo. Zitto. Sarà per un’altra volta. Bacia e basta».

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