C’è vita oltre il burkini
La sindaca leghista di Monfalcone attacca le donne che fanno il bagno vestite. Ma non sa nulla delle attività culturali delle bengalesi per favorire l’integrazione
La sindaca leghista di Monfalcone attacca le donne che fanno il bagno vestite. Ma non sa nulla delle attività culturali delle bengalesi per favorire l’integrazione
Tutto è cominciato a Monfalcone, con l’esternazione della sindaca leghista che ha voluto additare alla pubblica disapprovazione l’abitudine di – pochissime in verità – donne bengalesi che entrano in mare vestite. Ha gridato alla mancanza di igiene e alla violazione di quella cultura per lei imprescindibile che ci fa entrare in acqua sufficientemente denudate e ha annunciato una ordinanza che vieterà l’ingresso al mare se non in costume, sicura così di difendere i valori occidentali compromessi da quella che ritiene una religione oscurantista che tenta di colonizzarci. Ne è seguito un affollato flashmob nella spiaggia monfalconese di Marina Julia dove trecento persone hanno deciso di entrare in acqua vestite, uomini e donne, italiani e bengalesi. Poi c’è stata la tappa triestina nel famoso stabilimento balneare conosciuto come “Pedocin”, dove da sempre un muro separa la spiaggia delle donne da quella degli uomini: qualche signora seminuda ha apostrofato in malo modo un paio di mamme con il Chador che, con l’acqua alle ginocchia, guardavano giocare i loro bambini. «Al Pedocin vestite» è subito stata la parola d’ordine diffusa su whatsapp nel nome del rispetto delle libertà individuali e delle usanze altrui ed ecco che domenica anche a Trieste diverse decine di donne si sono immerse in acqua tenendosi addosso i vestiti.
A TRIESTE i musulmani non sono tantissimi o, meglio, ci si accorge poco di loro come invece succede a Monfalcone dove la loro presenza è ben visibile se non altro perché sono ormai quasi un terzo della popolazione. Una cittadina amministrata dalla destra ma da sempre “governata” da Fincantieri e le ditte in appalto o le tante in subappalto nei cantieri fanno lavorare migliaia di cittadini del Bangladesh. L’economia monfalconese si regge molto su questa presenza ma la ricchezza economica sembra non voler diventare anche ricchezza culturale con la sindaca Cisint che continua a collezionare iniziative per dividere, quasi a voler escludere i bengalesi dalla città. Eppure, a girare per Monfalcone la presenza bengalese è evidente soprattutto nelle donne così come è evidente l‘appartenenza culturale non omogenea: se molti bengalesi girano in pantaloncini e maglietta, la maggior parte delle donne porta abiti tradizionali, dai Sari color pastello ai Chador, dai semplici Hijab fino a, pochi, nerissimi Niqab.
SOLTANTO associazioni di volontariato si occupano di accoglienza e integrazione a Monfalcone e non sono per niente supportate dalle istituzioni pubbliche. C’è l’Associazione Monfalcone Interetnica, per esempio, che raccoglie anche un centinaio di donne bengalesi: un coro misto per fare musica assieme, i corsi di chitarra per i ragazzi e, soprattutto, i corsi di italiano tanto richiesti e tanto seguiti dalle donne che vorrebbero imparare la lingua del paese che le ospita e lo sentono come un urgente primo passo. Hanno raggiunto i mariti che lavorano a costruire navi, hanno figli piccoli che riescono a mandare a scuola – con qualche sforzo, va detto, perché l’amministrazione si inventa di tutto per evitare le classi «con troppi stranieri» – ma loro rischiano di restare a casa, isolate o «sotto sorveglianza» da parte di una comunità che mantiene inevitabilmente anche qualche sacca di intransigenza culturale e religiosa. «Uscivo solo per poche compere se mi aiutava qualche amica che sa l’italiano» mi dice Fatima che i corsi di italiano li sta seguendo con entusiasmo. Parlare con le donne che stanno seguendo la scuola dei volontari di A.M.I. è una esperienza che aiuta a scoprire un mondo: vengono dall’altra parte dell’emisfero, tutto è diverso, ma quello che colpisce subito, oltre alla bellezza dei loro occhi neri e dei loro sorrisi aperti, è la loro fame di uscire e di capire. Ci sono Kadisha con sua figlia Nilufa che ormai parla l’italiano quasi perfettamente e, quando chiedo perché viene a scuola mi risponde «Perché voglio poter parlare dei miei sentimenti, di quello che provo. Con te, per esempio».
IN CLASSE c’è Nurun che ascolta e scrive mentre allatta la sua bambina e Taschmin che avrebbe voluto andare in Inghilterra, come hanno già fatto in tanti, perché lì ci sono servizi e un’accoglienza che qui si sognano. Quasi tutte hanno il capo coperto ma c’è anche Aruna con un vestito bianco a fiori rossi e i capelli neri lunghi fino alla schiena. Queste donne sono una avanguardia, è vero, ma stanno segnando una strada per le altre e così, mentre l’ufficio legale del Comune di Monfalcone pensa ancora a come scrivere l’ordinanza anti-burkini, sarebbe bello se la sindaca Cisint passasse una mattina con loro, con le gambe nell’acqua tiepida del mare a Marina Julia o in un’aula improvvisata dove si studia: le vedrebbe probabilmente anche togliersi il velo un poco alla volta ma di sicuro non potrebbe continuare a inventarsi paladina della libertà delle donne musulmane schiave di una religione oscurantista o nume tutelare dell’igiene pubblica.
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