«Ce lo dissero le mosche». La scomparsa di Robert Fisk
Il ricordo È morto lo storico inviato del giornale The Independent. I suoi reportage - come quello sul massacro di Sabra e Chatila - furono un modello per un’intera generazione di reporter. E i suoi libri un atto d’accusa contro le guerre dell’Occidente
Il ricordo È morto lo storico inviato del giornale The Independent. I suoi reportage - come quello sul massacro di Sabra e Chatila - furono un modello per un’intera generazione di reporter. E i suoi libri un atto d’accusa contro le guerre dell’Occidente
Ce lo dissero le mosche… Inizia così il più celebre reportage di Robert Fisk, quello sul massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila del 1982, un ritaglio di giornale che Stefano Chiarini, con determinata gentilezza, mi mise sotto il naso qualche decennio fa per farmi capire come si fa questo mestiere. E ricordando oggi Fisk, il grande inviato dell’Independent morto il 30 ottobre di ictus a Dublino, non si può non accostarlo all’indimenticabile Steve Shrimps, compagno di scorribande mediorientali. Anche Robert ammirava Stefano per il suo coraggio e l’intelligenza e un giorno, credo, finì pure per intervistarlo. E in Iraq si incontrava spesso con Giuliana Sgrena.
Leggendo quell’attacco e quel reportage c’era dentro tutto Fisk e il suo metodo di lavoro, l’attenzione quasi spasmodica al particolare – come per ogni buon cronista – inserito nella lettura più generale degli eventi, fino a diventare quadro storico, geopolitico e, infine, anche una critica spietata al potere e alla propaganda, esercitata mettendo in fila i fatti, facendo parlare i protagonisti, quelli grandi e quelli umili, tracciando il percorso drammatico e doloroso di interi popoli. Un metodo che ha espresso brillantemente in alcuni libri come «Pity The Nation», Il martirio di una nazione, monumentale e straordinario racconto della guerra civile libanese, quasi un poema in prosa, ovviamente precisissimo nella descrizione degli eventi, sul quale si è formata una generazione intera di reporter di guerra.
Così come è un grande libro «Cronache mediorientali», dove confluiscono insieme alle sua esperienza di reporter cominciata negli anni’70 nell’Irlanda dei «Troubles», la conoscenza approfondita della storia e della lingua araba che parlava in maniera fluente. Corrispondente prima del Time e poi per l’Independent, Robert Fisk, di stanza a Beirut, aveva acquisito una chiara visione del mondo arabo e musulmano vivendo con la gente dei paesi di cui scriveva: per le strade e nelle case, in prima linea nelle trincee e nei covi dei guerriglieri. Celebri le sue interviste a Osama bin Laden e se uno avesse letto la prima che gli fece in Sudan dopo la guerra del Golfo negli anni Novanta avrebbe forse intuito qualche cosa di più su che cosa ci stava preparando il futuro.
Nel novembre 2001 è sul confine afghano quando viene assalito da un gruppo di profughi scampati alle bombe americane: rimane gravemente ferito – il suo volto rimase tumefatto a lungo in modo impressionante: così conciato lo vidi qualche tempo dopo a Teheran – ed è forse proprio questo incidente la molla che fece scattare in lui il desiderio di comprendere a fondo le ragioni di chi da sempre è vittima delle guerre che gli Stati Uniti, insieme agli altri Paesi, contribuiscono ad alimentare. Robert Fisk era convinto che i cronisti delle guerre in Medio Oriente, pur avendo documentato in modo competente i fatti, pur riportando correttamente luoghi, personaggi e tempi, avessero tradito il loro impegno con lettori mancando di chiarire il perché delle ingiustizie e degli orrori e soprattutto non avessero saputo offrire un orizzonte morale e storico in cui inserire gli eventi. Per farlo bisogna conoscere a fondo la storia e buttarsi a capofitto negli eventi: «Il nostro è un mestiere dove ci si sporcano le scarpe», disse un giorno nei Balcani a Tommaso Di Francesco.
Sì, era celebre e superpremiato, ma ha continuato a scrivere, fino all’ultimo, coinvolto anche in polemiche feroci, come quella nell’aprile del 2018 sui bombardamenti a Douma in Siria dove, andando contro a quasi tutte le asserzioni che circolavano, contestò che le vittime fossero state bersaglio delle armi chimiche di Assad. Una cosa è certa: anche allora fu tra primi cronisti, se non il primo, ad arrivare nella Ghouta orientale arrampicandosi su baluardi di sei metri ed entrando nella città sotterranea scavata sotto le fondamenta delle case e nella roccia viva.
Compariva all’improvviso sul luogo della battaglia, me lo ritrovai accanto a Baghdad nel 2003 davanti alla biblioteca nazionale in fiamme, tra saccheggiatori e miliziani armati: vidi Robert Fisk raccogliere manoscritti per terra mentre altri fogli volavano nell’aria, li inseguivamo come se cercassimo di impedire la distruzione sotto i nostri occhi. A un certo punto mi fermai mentre Robert continuava instancabile ad afferrare pezzi di carta per terra o sollevati nell’aria dal fumo dell’incendio. Quello che mi pareva un gesto vano per lui era quello che si doveva fare in quel momento.
Robert Fisk ha sempre cercato la verità anche quando a molti di noi sembrava uno sforzo inutile. L’attacco di quel reportage su Sabra e Chatila rimase tamburellante come una colonna sonora nella mia testa: «Ce lo dissero le mosche. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Fu inseguendo le mosche che scoprimmo così le fosse comuni irachene, i massacri seminascosti dei Balcani, del Medio Oriente e dell’Africa. Fisk ci inseguirà ancora, tallonando le nostre cronache anche dopo la morte.
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