Editoriale

Catalogna, il rischio balcanico

Catalogna, il rischio balcanico

Da quando in qua un processo referendario in un paese europeo, anche se sull’indipendenza, diventa un «problema» democratico? Accade in Spagna, dove il governo Rajoy, ormai decisivo nella compagine dell’Unione […]

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 22 settembre 2017

Da quando in qua un processo referendario in un paese europeo, anche se sull’indipendenza, diventa un «problema» democratico?

Accade in Spagna, dove il governo Rajoy, ormai decisivo nella compagine dell’Unione europea, entra come un elefante dentro una cristalleria. Commissaria le finanze della Generalitat catalana, arresta i funzionari, sequestra materiale di propaganda e milioni di schede lettorali, minaccia centinaia di sindaci e i giornalisti, entrando con la polizia nelle redazioni dei giornali.

Gettando la maschera sulla realtà del processo democratico in corso che vede la restaurazione del Partito popolare, a fronte della diffusa, perfino forte, ma non unita e per questo impotente e non alternativa, sinistra spagnola. Che ora si trova anche di fronte ai contenuti di una rivendicazione indipendentista «di sinistra» che, seppure non si dichiari nazionalista, rischia di imitare tutte le modalità e gli sviluppi «balcanici» del nazionalismo.

Così, sull’obiettivo dell’indipendenza della nazione catalana, sembrano essere messe a tacere tutte le voci, come quelle di Podemos e della sindaca di Barcellona Ada Colau, capaci di rilanciare un «autonomismo per tutti», non storico-identitario ma politico e sociale.

Una rogna per la Spagna che si ritrova a dover fare i conti con la sua reale statualità, specchio della irrisolta crisi sociale, dopo l’uscita dal buio del franchismo e la Costituzione del 1978.

E dopo i recenti fallimenti per definire un sistema nazional-federale. Ma anche una rogna per l’Unione europea che ieri, per bocca del portavoce Margharitis Spinas ha ribadito seccamente: «Rispettiamo l’ordine costituzionale della Spagna come facciamo con tutti gli stati membri».

«La posizione risale al 2004 – ha aggiunto il portavoce – guida le nostre competenze e passa per il rispetto del quadro costituzionale e dell’ordine giuridico di ogni stato membro».

A Bruxelles dopo il disastro della secessione della Brexit pensavano forse che tra gli Stati rimasti fosse pace fatta. Ma è all’interno di ogni Paese che covano particolarità perfino più pericolose del populismo. Che, rilanciate contro la stessa idea di Europa unita, possono riesplodere ogni momento di fronte alla divisiva crisi economica.

È una questione nascosta solo dal nuovo autoritarismo di Stato che in Europa centrale tiene a freno, per esempio, la preoccupante questione magiara, fronte aperto tra Ungheria e Romania; o quella macedone, che insidia la Grecia.

E per favore, nessuno citi la secessione «di velluto» tanto apprezzata della Cecoslovacchia, decisa a tavolino, senza referendum popolare, dai due presidenti ceco, Havel, e slovacco Meciar: Alexander Dubcek morì in un incidente stradale, correndo da una città all’altra per impedirla.

E poi, perché quel che è giusto per gli Stati membri dell’Ue non dovrebbe essere valido anche per gli altri? Perché la Catalogna indipendente non va bene e invece è stato riconosciuto lo «Stato» del Kosovo, grande meno del Molise e con una indipendenza decisa unilateralmente e con la violenza?

Due pesi e due misure che hanno visto fin dalla nascita nel 1991-92 l’Unione europea riconoscere tranquillamente indipendenze proclamate su base etnica, come per la Slovenia – ora decisivo Paese Ue – e per la Croazia mentre ancora esisteva la Federazione jugoslava.

Un vizio d’origine che oggi torna d’attualità. E pesa come una spada di Damocle.

Non ci schieriamo certo con l’indipendenza catalana, ma tantomeno con la Spagna o con l’Unione europea che di fronte a questa crisi sembra balbettare e tacere. Mentre il rischio di introiettare i «Balcani» si apre come una voragine.

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