Colpevole. Condannato a un anno e tre mesi (pena sospesa e non menzione) e al pagamento delle spese processuali. Piercamillo Davigo esce dalla corte d’Appello di Brescia senza dire una parola dopo la conferma della sentenza di primo grado dello scorso giugno. Il reato è rivelazione di segreto d’ufficio in relazione alla diffusione dei verbali del collega Piero Amara, passate di mano in mano tra i membri del Csm e pure tra alcuni parlamentari.

Non è tanto l’entità del fatto – decisamente tenue – né la condanna a preoccupare Davigo, quanto la sconfitta della sua linea politica e giudiziaria: a suo modo di vedere, infatti, l’ex magistrato non aveva fatto nulla di male e ha sempre ribadito di aver agito «in buona fede, senza altro scopo se non quello di ripristinare la legalità». E invece adesso si può dire che nel merito aveva torto, anche se resta indubbiamente qualche possibilità di ribaltamento del verdetto in Cassazione, anche perché il suo coimputato Paolo Storari, per gli stessi fatti, è stato assolto.

«RIMANGO convinto della sua assoluta innocenza, andremo avanti», fa sapere l’avvocato Davide Steccanella, difensore di Davigo insieme a Francesco Borasi. Di parere diametralmente opposto il legale di Ardita, Fabio Repici: «Non c’è da sorprendersi. In fondo l’imputato aveva anche confessato di aver commesso i reati per cui oggi è stata confermata la condanna». La vicenda, oltremodo contorta, ruota tutta intorno ai verbali di Amara sulla presunta esistenza di una «Loggia Ungheria» capace di determinare nomine a livelli altissimi nella pubblica amministrazione. Si tratta di dichiarazioni rese tra il dicembre del 2019 e il gennaio dell’anno successivo nell’ambito dell’inchiesta sul cosiddetto falso complotto Eni. Davigo, allora membro del Csm, nell’aprile successivo, consegnò i verbali al pm Storari, a suo dire perché i vertici della procura di Milano non stavano muovendo un dito. Non solo, le carte sono state poi consegnate anche al vicepresidente del Csm David Ermini perché informasse Mattarella, oltre che al pg e al presidente della Cassazione Giovanni Salvi e Pietro Curzio. E ancora: di quegli atti Davigo ha parlato anche al parlamentare del M5s Nicola Morra, allora componente della commissione antimafia. Un giro decisamente ampio per delle carte che dovevano rimanere riservate su un’inchiesta che alla fine non ha portato a nulla.
«L’unica alternativa che restava a Davigo a pochi mesi dalla pensione, di fronte alla denuncia di Storari – su legge nella memoria difensiva dell’ex magistrato – era quella suggeritagli dal Presidente del Tribunale di primo grado di “farsi i fatti suoi”». Tuttavia, prosegue la memoria, «se uno sceglie di fare il magistrato e quindi di servire la Repubblica (ed è pagato dallo Stato per fare questo), ha il dovere, a differenza di qualsiasi altro comune cittadino, di “non farsi i fatti suoi” se viene a conoscenza di un possibile illecito».

VARIEGATI, va da sé, i commenti che arrivano dal mondo della politica. Matteo Renzi gongola: «Oggi (ieri, ndr) il giustizialista Davigo è stato condannato anche in Appello per rivelazione di segreto d’ufficio. Io non sono come lui, io sono garantista. E dunque gli auguro di ribaltare il verdetto in Cassazione. Ma il tempo è sempre più galantuomo». Da Forza Italia arriva invece la voce di Maurizio Gasparri, che ci va giù durissimo. «Siamo garantisti – dice – ma siamo anche osservatori della realtà italiana. E non tutte le vicende finiscono come qualcuno sperava. E c’è un destino per ciascuno di noi dietro l’angolo. Quello di Davigo sembra essere quello di passare da giustiziere implacabile a condannato. Complimenti e auguri».
L’ultima parola, adesso, spetta alla Cassazione.