Roghi sparsi per tutto giugno e poi ancora a luglio; rincorsi, aggirati, domati. Il 19 luglio, improvviso, si incendia il Carso sopra Monfalcone, tra l’autostrada e la ferrovia intorno alla statale che porta a Gorizia. Corre veloce verso sud, verso i paesini del circondario di Duino-Aurisina nel Carso triestino. Scintille dai freni di un treno, sterpaglia ingiallita dalla siccità che fa presto a diventare fiamma, bastano una cicca, un vetro rotto, la marmitta bollente di una macchina, certamente un fulmine ma anche le scatole d’innesco di qualche criminale.

IL CARSO che si stende per chilometri lungo il confine tra Italia e Slovenia, migliaia di ettari di bosco e cespugli. Niente manutenzione, incuria, scomparsa la quotidianità delle guardie forestali, nessun presidio sul territorio, dotazioni al minimo per i vigili del fuoco con l’organico al lumicino. È l’Italia che vive solo di emergenze, sempre inevitabilmente in attesa del prossimo disastro.

Il fuoco si allarga, mangia la vegetazione a decine di metri al secondo, le fiamme si propagano verso il Flondar, tra Monfalcone e il monte Hermada mentre la statale è aggredita brutalmente e le provinciali sono accerchiate. Chiusa l’autostrada, fermi i treni, per alcuni giorni arrivare in Italia da Trieste vuol dire passare per la Slovenia. Il fumo denso copre Monfalcone, arriva a Gorizia, l’odore acre si sente a Trieste, di notte PM10 schizza alle stelle. Vigili del fuoco, forestali, protezione civile della Venezia Giulia sono in Carso. Evacuati paesini e frazioni nel Comune di Doberdò, uno alla volta, nei giorni che si susseguono implacabili con il fuoco che si avvicina alle case. Le fiamme risalgono il Brestovec mentre nel Carso goriziano, intorno a Savogna, sono centinaia le persone costrette a lasciare le loro case.

Due settimane di inferno, da ieri sembra finita ma il vasto territorio è scansionato da un elicottero con telecamera termica, c’è ancora qualche fiammata tra i cespugli e magari qualche brace che si allunga nel sottosuolo, invisibile, pronta a innescare un nuovo rogo. Strade provinciali ancora chiuse, la statale riaperta oggi. Quasi 4.000 ettari andati in fumo.

PER CHI TENTA di arginare le fiamme è un calvario: non si vede quasi nulla, solo fumo, nelle doline non si respira e continuano ad esplodere, tutto intorno, bombe e granate. Il fuoco ingigantisce le sue spire roventi, a giorni di relativa calma e ottimismo si avvicendano giornate infernali. L’autostrada è riaperta, la ferrovia riparte, ma l’incendio è furioso intorno al monte San Michele e continuano anche le esplosioni.

Flondar, San Michele… Sono i luoghi che hanno visto la mattanza della Prima guerra mondiale, dove gli ordigni inesplosi giacciono nascosti da più di cento anni. Una zona del Carso, proprio questa, dove il logoramento in trincea era interrotto dagli attacchi alla baionetta tra cavalli di frisia e bombe a mano. Le dodici battaglie dell’Isonzo, la carneficina, la nube di gas che sapeva di mostarda a bruciare corpi e sentimenti, la brigata Catanzaro in rivolta decimata dai propri ufficiali e tutti quelli che «quando erano spinti fuori delle trincee andavano, ma piangevano», come scrisse il colonnello Alessandro Gatti nell’autunno del 1917. Gorizia, la Nizza austriaca, bombardata e semidistrutta, presa persa e poi ripresa, quella di cui si canta in «Gorizia tu sei maledetta». Non c’è più nessuno, vivo, che abbia visto tali orrori ma questo è un pezzo di terra dove, nella Prima guerra mondiale, i cadaveri, dell’una e dell’altra parte, si sono ammucchiati uno sopra l’altro. Nella zona del San Michele c’è uno dei tanti musei all’aperto: le trincee, le grotte, i monumenti. Il cippo della brigata Sassari e quello dell’ungherese 4° Honved, la galleria cannoniera della Terza Armata e l’ingresso dello Schönburgtunnel.

Terra bruciata nel Carso, foto di Vladi Mervic
Terra bruciata nel Carso, foto di Vladi Mervic

È qui, nel Valloncello dell’albero isolato che, il 27 agosto 1916, Ungaretti scrive una delle sue poesie più belle e dolenti dedicata allo scempio della guerra. L’albero isolato era un grande gelso subito dietro le trincee ungheresi, l’unico rimasto in piedi, spoglio e crivellato di colpi, tra le pietre annerite e il fango intriso di sangue di un terreno rivoltato dalle bombe. Diventò un buon riferimento per gli italiani nel prendere la mira ma per gli Honved era una sorta di totem. Ed esiste ancora, nero tronco intagliato da scritte in quella straordinaria lingua delle steppe, ornato di coccarde e nastri con il tricolore magiaro, monumento nazionale e vanto del museo di Szeged. Quattrocentomila caduti in quella guerra proprio qui, in questo Carso che il fuoco ha fatto ardere per settimane e adesso, nel luglio del 2022, sembra tornato come allora: tutto nero, larghe distese di cenere, spunzoni di alberi e cespugli.

ANCHE IL RESTO del Novecento in questo Carso è stato guerra. Sloveni e antifascisti perseguitati e moti di resistenza, subito, già ben prima del secondo conflitto mondiale. Jamiano, il paese più duramente e lungamente colpito in questo luglio, è stato per giorni la sede del comando operativo antincendio; ottant’anni fa qui si incontravano il CLN e i comandi partigiani sloveni. Passa per Jamiano la strada del Vallone, chiusissima fino a ieri, va verso Gorizia a incrociare la Valle del Vipacco dove ottant’anni fa c’era la sede del comando di zona dei partigiani jugoslavi. Vipacco senz’acqua, oggi, che si incontra con l’Isonzo, il fiume dalle limpide acque color smeraldo, entrambi desolate bianche pietraie tanto che la centrale idroelettrica di Solkan/Salcano è stata chiusa.

Gli elicotteri prendono l’acqua dalle cisterne posizionate un po’ dovunque dai vigili del fuoco. A Cotici gli abitanti sono tutti al lavoro: delimitano le prime case del paese con una linea tagliafuoco. Dall’altra parte, verso Duino ovvero verso Trieste, gli abitanti di Medeazza guardano sgomenti il fuoco che lambisce le case, nessuno di loro c’era ma è uno dei paesi rasi al suolo dai bombardamenti italiani durante la Grande Guerra e poi dato alle fiamme dai nazisti il 16 agosto 1944 assieme ad altri tre paesi vicini.

Vigili del fuoco e autorità slovene fanno il punto della situazione. Foto di Dino Perco
Vigili del fuoco e autorità slovene fanno il punto della situazione. Foto di Dino Perco

GLI ELICOTTERI si moltiplicano: questa battaglia si combatte meglio dal cielo, fin che si può, e arrivano dalla Slovenia a dar manforte con i cannoni ad acqua delle autobotti della Polizia slovena. I canadair devono arrivare al mare, acqua e sale sulle foreste in fiamme, ci vorranno decine di anni perché ricresca qualcosa e tornino, un po’ alla volta, anche gli animali selvatici di cui il Carso è sempre stato pieno. Ci sono giornate che lo sfinimento è palpabile e meno male che arrivano in forze i Gasilci sloveni, decine di autobotti elicotteri droni, nonostante nella vicina Repubblica sia in corso il più vasto incendio a memoria d’uomo. In Slovenia si impara da piccoli a fare i pompieri: già alle elementari si può aderire ai programmi gratuiti offerti dai Gasilci. Si comincia giocando, con tanto di Olimpiadi tra squadre regionali, si finisce per sapere bene cosa fare davanti al fuoco e, magari, si diventa pompiere professionista.

NEL CIELO del Carso si alternano i rumori dei velivoli, aumentano di numero ogni giorno che passa: anche dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Slovacchia, dalla Serbia, dalla Romania. Sul terreno ai volontari della protezione civile si uniscono, dal primo giorno, uomini e donne dei paesi del Carso. Portano cibo e acqua alle squadre in azione, restano nei paesi evacuati per tagliare alberi, organizzano linee tagliafuoco, consapevoli che lavorare assieme per il bene di tutti è l’unico modo per salvare anche se stessi. Lo scrittore e viandante Luigi Nacci dice che il Carso è il cuore pulsante della Venezia Giulia, che lo abbiamo umiliato con la nostra mancanza di cura, con la stupida disattenzione con cui spesso lo attraversiamo. Questo Carso giuliano che è contemporaneamente anche Primorska e Künsterland, senza distinzione di lingue e confini come sanno bene le piante e gli animali, come sa bene il fuoco. Se ne è ricordata, almeno in questi giorni dannati, anche la gente che lo abita.