Ieri sera a Westminster (non) si recitava a soggetto. Le carrozze erano di nuovo fuori dalle scuderie, le fanfare dalle custodie e gli ermellini dalla naftalina per la cerimonia del King’s Speech, il discorso del monarca, il primo dell’era Labour e il secondo per Charles III, che installa ufficialmente il change dell’era Starmer. Si tratta dell’illustrazione del programma di governo che inaugura la legislatura e di uno sguardo approfondito sullo sfuggente «starmerismo».

IL PRESEPE vivente della monarchia costituzionale britannica si è svolto secondo prammatica. Dopo aver lasciato il palazzo regio in corteo e rievocato la storica scaramuccia con il parlamento, affiancato dalla consorte, il sovrano ha letto le trentanove leggi del “suo” governo tenendo acrobaticamente sul capo il chilo abbondante di oro/argento/platino furiosamente ingemmati (2.868 diamanti, 17 zaffiri, 11 smeraldi, centinaia di perle e un mega-rubino) della corona imperiale.

Il tutto evitando – nelle parole della defunta regina madre – «di guardare in basso per leggere il discorso; bisogna tenerlo in alto altrimenti ti si spezzerebbe il collo (!) o la corona cadrebbe».

È stato il primo discorso «del re» e non «della regina» per un governo Labour dai tempi di Clement Attlee nel 1950 nel segno dell’ennesimo slogan dal sapore involontariamente brexittaro che dovrebbe togliere le pastoie alla Gran Bretagna (Take the brakes off Britain). I tre più rilevanti, partendo dalle misure più spericolatamente radicali: nazionalizzazione delle ferrovie dopo un pluridecennale incubo di privati e sproporzionatamente costosi disservizi; il lancio di una nuova, verdeggiante compagnia energetica pubblica; e soprattutto la fine degli odiosi contratti a zero ore e del fire and rehire, letteralmente licenzia e riassumi (a paga più bassa) che padroni e padroncini infliggono alla forza lavoro.

Segue un disegno di legge sull’uguaglianza razziale che estenderà il diritto di presentare richieste di parità retributiva ai lavoratori delle minoranze etniche e alle persone disabili e introdurrà nuovi requisiti di rendicontazione salariale per le aziende più grandi.

La particolare declinazione del keynesismo di ritorno della nuova maggioranza consta della solita spasmodica attenzione agli investimenti privati e al controllo poliziesco dei cordoni della spesa pubblica, la cosiddetta «responsabilità di budget». Ci sarà il tentato incremento dell’edilizia popolare attraverso una riduzione della burocrazia e tutela degli inquilini che non potranno più essere facilmente sbattuti fuori dai padroni di casa.

LA QUESTIONE migratoria vede la sacrosanta eliminazione della porcata concentrazionaria Tory dei voli in Ruanda – ai 300 milioni di sterline intascati da Kigali si è detto addio – sostituita dal classico ripiego della «repressione dei trafficanti di esseri umani» che della migrazione è mero effetto collaterale e non causa.

A chiudere la veloce disamina sono le decisioni più oscene: come Boris Johnson – ma anche tutti i suoi predecessori compagni di partito – il rettilineo e marziale Starmer è un grande sostenitore della Nato e vuole assolutamente che i cosacchi di Kiev «giungano alle porte» di San Pietroburgo. Alla bisogna ha promesso un aumento delle spese militari al 2,5% del Pil ma non si è lasciato sfuggire quando.

Manca una legge per la tutela delle persone transgender e soprattutto resta l’odioso two child benefit cap, l’oscena legge simile in spirito alle Poor Law vittoriane introdotta dai Tories nel 2017 che punisce i poveri perché – come un tempo gli irlandesi secondo l’adagio razzista – si riproducono «come conigli» istituendo un tetto che limita il sussidio sociale alle famiglie ai primi due figli.