Quello che ha diviso la cultura occidentale da Ancien Régime a Mondo Nuovo verso la metà del ‘700 il calcio, uno sport che si è evoluto alla stregua di un’arte minore, lo ha vissuto viceversa traguardando Europa e Sudamerica fra gli anni venti e i settanta del secolo scorso. Il nostro massimo critico (e storico militante nella summa intitolata Storia critica del calcio italiano, la cui prima edizione è del ’75 in risposta alla già classica, ma antipode nel taglio obiettivo e distaccato, Storia del calcio in Italia del ’54 a firma di Antonio Ghirelli) ne divide la vicenda complessiva in tre fasi: la prima, dall’estrema propaggine dell’‘800 alla Grande Guerra, relativa ai pionieri e alla prima diffusione di un’attività agonistica, appannaggio di piccolo e medioborghesi, che insegue le rotte della egemonia commerciale come della colonizzazione britannica; la seconda fase di messa a punto del calcio «moderno» e cioè di progressiva individuazione delle scuole nazionali e relative caratteristiche d’ordine agonistico e tecnico-tattico; infine, ed è storia di oggi, la dinamica di perpetua e reciproca contaminazione fra le singole scuole che duplica gli assetti del mondo globalizzato nei modi di una strategia, appunto, postmoderna.

Molto utile è dunque la rinnovata edizione di Locos por el Fútbol (prefazione di Daniele Adani, Sperling & Kupfer, pp. 314, euro 18,00), un atlante storico-geografico approntato da Carlo Pizzigoni, autentico filologo del calcio già autore di biografie di Marcelo Bielsa e Pep Guardiola, noto oltretutto per redigere di preferenza le affabulazioni messe in scena da Federico Buffa, qui autore della postfazione. Esperto della cultura sudamericana, connoisseur di prima mano della musica e della letteratura, Pizzigoni fornisce un diagramma accuratissimo del football presto divenuto, nell’emisfero australe, futebol o fútbol. Il volume è scandito per brevi monografie dedicate a realtà nazionali (dieci in tutto, non escluse quelle che diremmo minori quali Venezuela, Ecuador o Bolivia) a partire dalle più classiche e titolari di qualcosa come dieci titoli mondiali, ovviamente Argentina, Brasile e Uruguay. Sguardo d’assieme, aneddotica e sapidi profili di protagonisti servono a profilare le singole caratterizzazioni del gioco e dei campioni eponimi. Qui possono mutare luoghi e nomi ma viene fatalmente riproposta la medesima parabola, da una prima fase di eclettica e ancora confusa ricezione del gioco, alla messa a punto di una scuola fino alla sua dissoluzione o intersezione nell’altro da sé.

È innanzitutto il caso dell’Argentina, dove il verbo monotono dei britannici diviene via via stile criollo, detto anche con orgoglio autarchico la Nuestra («il nostro gioco»), lo stile appreso nell’angustia dei cortili domestici, insolente e virtuosistico, quello della leggendaria Maquina (il River Plate pluricampione ’42-’46) e poi del trio degli «angeli dalla faccia sporca» (Maschio-Angelillo-Sivori) che anticipa anche negli eccessi il genio di Diego Armando Maradona. Ma è il caso pure del Brasile che, a dispetto dei pionieri scozzesi e del razzismo incistato ab origine, apre il suo gioco alla danza, a una naturalezza (lì si dice di solito jogo bonito) e a una magnificenza musicale dove diresti che pulsa una ritmica nera anche sotto la pelle di un bianco: basterebbero, di una filiera pressoché infinita, i nomi degli artisti supremi, da Leonidas a Zizinho, da Didì a Falcao e Zico per tacere, sovrastante, il nome di Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé. Ed è il caso infine del minuscolo Uruguay, il cui patrimonio calcistico è inversamente proporzionale all’esiguo numero degli abitanti, appena 3 milioni, ma vanta fuoriclasse assoluti da Juan Pepe Schiaffino a Enzo Francescoli partendo, quasi fosse un Primo Mobile, dal mitico Obdulio Varela, capitano della squadra che batté il Brasile a Rio nella finale mondiale del 1950, il campione di un calcio molto spiccio, essenziale fino ad essere spietato, l’uomo cui Osvaldo Soriano dedicò uno dei suoi più memorabili racconti. Al culmine dell’età modernista, il gioco corrisponde in Sudamerica al virtuosismo degli argentini, alla danza (calcio bailado) dei brasiliani, alla praticità degli uruguagi.

Carlo Pizzigoni mostra con lucidità analitica (ricca la bibliografia, manca purtroppo un indice dei nomi) come quelle più o meno rigide partizioni si siano nei decenni recenti aperte tuttavia a scambi e ibridazioni. Ciò è vero innanzitutto per i tecnici: Bielsa, per citare un esempio prediletto da Pizzigoni, è «olandese» per vocazione almeno quanto non sia argentino per elezione mentre il grande Emerico Hirschl sa dedurre, lui ebreo ungherese, armonie danubiane dalla garra charrua che in Uruguay dovrebbe essere cifra esclusiva degli autoctoni o da ultimo Tele Santana (la vittima di Paolo Rossi e dei suoi tre gol al Brasile, quel 5 luglio ’82) è il vivente repertorio di ogni tattica possibile e non certo il qualunquista dell’offensivismo che taluni vorrebbero. Ibridi nel profilo e così nelle caratteristiche di gioco sono oggi anche i calciatori, a partire da Lionel Messi, fluttuante entità postmoderna che sa unire in campo l’invenzione estemporanea alle linee metafisiche per lui un tempo immaginate da Pep Guardiola. Se ciò è vero per Messi, allora deve esserlo per chiunque altro e persino per quei calciatori più vicini agli stereotipi dantan come potrebbero sembrarlo l’uruguagio Godín (duro e puro in difesa, ma portato a concludere su palla inattiva), il brasiliano Vinicius Junior (fulmineo negli affondi e nei dai-e-vai ma deciso anche nel takle) o l’argentino Alvarez che è notevole sia negli assist sia nelle dirette conclusioni a rete. Come è stato rilevato, la novità tecnica o tattica un tempo durava degli anni, oggi dura lo spazio di mesi e talora pochi giorni.

Versatilità, eclettismo, uscita definitiva dalle rigide coordinate dell’era fordista, questo è l’orizzonte d’attesa del calcio globalizzato, specialmente in Sudamerica. Infatti nello scorso campionato del mondo Leo Messi non sembrava l’erede di Diego, il genio ingestibile e astrale, ma semmai un Obdulio Varela redivivo, assennato e in equilibrio nel baricentro esatto della squadra: «Assist, gol – rileva Pizzigoni – in generale una presenza costante in ogni momento chiave delle partite che hanno portato l’Argentina a giocare la più bella e emozionante finale di sempre, e a vincerla». Più bella non è neanche detto, certamente la più equilibrata e spasmodica. Esito fatale di un gioco che oggi ricorda il menu della cucina internazionale: un gioco paradossalmente ritornato agli albori di un football oramai omologato, formattato, più o meno uguale dappertutto? A vedere il City e lo stesso Real Madrid, non si direbbe neanche questo.