È il grano il filo conduttore delle due vicende che interessano il Libano in questi giorni.
La prima, al momento un giallo, riguarda la nave siriana Laodicea sanzionata dagli Usa nel 2015 per affiliazione col regime di al Assad e che secondo la diplomazia ucraina sarebbe attraccata giovedì nel porto di Tripoli, seconda città a nord del Libano, notizia confermata anche da Marine Traffic, agenzia che monitora il traffico marittimo mondiale.

L’Ucraina ha accusato la Russia di aver rubato il carico di Laodicea, 10mila tonnellate tra grano e orzo, dai granai dei propri territori invasi. L’ambasciatore ucraino in Libano Ihor Othash a colloquio giovedì con il presidente Aoun ha avvertito che comprare grano rubato dalla Russia in Ucraina metterebbe in discussione le relazioni tra i due paesi. Nell’incontro l’ambasciatore ha confermato anche l’impegno a esportare grano affinché si possa far fronte alla crisi alimentare e ha ringraziato Aoun per aver condannato in passato l’invasione russa. Le ragioni per cui la nave diretta originariamente al porto di Tartus in Siria sia arrivata a Tripoli sono ancora sconosciute.

L’ambasciata russa ha ieri ricusato tutto. Per la Loyal Agro, compagnia turca d’import-export di cereali che ha gestito il carico, non il governo libanese, ma dei privati avrebbero dovuto comprare la partita. Bou Habib, ministro degli affari esteri, ha ieri dichiarato che «il Libano non è ancora capace di stabilire da dove provenga la derrata» e le autorità libanesi hanno fatto sapere che nulla è stato toccato all’interno della nave.

Il Libano, che importa oltre il 60% del proprio fabbisogno di grano da Ucraina e Russia, è stato uno dei paesi più colpiti dallo stop delle esportazioni dovuto alla guerra. L’intero Medioriente dipende per grano e olio di semi da Russia e Ucraina. Durante la crisi economico-finanziaria peggiore della sua storia, il paese ha dovuto far fronte all’ennesima crisi nella crisi quando il grano ha cominciato a scarseggiare. Con un’inflazione e una speculazione ormai fuori ogni controllo, una crisi del settore energetico che lascia i libanesi per oltre metà giornata senza elettricità, aumenti esponenziali della benzina e dei generi primari e secondari, in Libano anche prima della guerra in Ucraina c’era già una vera e propria crisi alimentare certificata da Fao e altre agenzie che operano sul territorio per oltre l’80% della popolazione.

L’altra questione riguarda i silos semi-distrutti dall’esplosione al porto del 4 agosto 2020 che ha causato 233 morti, 7mila feriti, 300mila sfollati e devastato Beirut. I silos, il più grande deposito di grano del paese prima della deflagrazione -per cui da due anni non è più possibile nemmeno avere scorte che vadano oltre un mese o due- sono al centro di una diatriba per il loro abbattimento. Da settimane si è però sviluppato un incendio alla loro base, perché le 20mila tonnellate di grano intrappolate dalle macerie e in stadio avanzato di fermentazione hanno cominciato a bruciare. L’incendio, di dimensioni ridotte fino a pochi giorni fa, ha costretto ora la croce rossa a distribuire mascherine e l’esercito a dichiarare inagibili le aree per un paio di chilometri intorno al porto in quanto l’aria è irrespirabile per il fumo. Il porto è stato evaquato. I silos potrebbero crollare a momenti. Sullo sfondo un immobilismo volontario politico che non ha provveduto a spegnerlo.

Il parlamento, che in un paese corrotto come il Libano rappresenta gli interessi dei gruppi di potere, ha espresso giorni fa voto favorevole all’abbattimento. Le famiglie delle vittime, il comitato di intellettuali che ha presentato la petizione «Il testimone silenzioso», alcuni parlamentari come Kataeb (estrema destra) e Tahrir (legati alla thaura, la rivolta del 2019) vorrebbero invece che i silos rimanessero per l’alto valore simbolico e architettonico che hanno.
Ma la ricostruzione del porto è una ghiotta occasione per molti e il potere prova sempre a cancellare i simboli che lo delegittimano.