Sembra passato un secolo da quando, nel gennaio del 2011, Hugo Chávez rimetteva perentoriamente al suo posto l’allora 44enne deputata María Corina Machado, che gli aveva dato del ladro: «Le suggerisco di vincere le primarie. Lei non ha i numeri per discutere con me». E, poi, fulminante: «Le aquile non cacciano le mosche».

12 ANNI più tardi, nel cielo venezuelano, le aquile non si vedono più: sono rimaste solo le mosche. Ed è stata proprio lei, la mosca più aggressiva, la leader di Vente Venezuela nota come la “dama de acero”, la donna d’acciaio, a stravincere, con oltre il 93% delle preferenze, le primarie dell’opposizione radicale che si sono svolte domenica con una notevole affluenza: si sono viste qua e là persino alcune code. E ciò malgrado il silenzio completo della stampa filo-governativa e le notevoli difficoltà logistiche (in assenza dell’assistenza tecnica del Consiglio nazionale elettorale).

Le ha stravinte, con il suo slogan «Hasta el final», su otto avversari minori (non tutti peraltro convinti della legittimità del processo), essendosi a sorpresa ritirati, pochi giorni prima delle primarie, sia il plurisconfitto candidato presidenziale Henrique Capriles di Primero Justicia, giustificando la propria decisione con l’incertezza legata alla sua ineleggibilità (ma, a detta di molti, fiutando la sconfitta), sia Freddy Superlano di Voluntad Popular (lo stesso partito di Juan Guaidó e Leopoldo López), che ha deciso di rinunciare proprio a favore di María Corina Machado, benché anch’essa dichiarata ineleggibile.

LEI, LA VINCITRICE, gongola: «Questa non è la fine ma il principio della fine. Nel 2024 vinceremo. Manderemo a casa Nicolás Maduro e il suo regime e cominceremo la ricostruzione», sulla base di un esteso programma di privatizzazioni delle imprese pubbliche (compresa la compagnia petrolifera statale Pdvsa) e, ha assicurato, di solidi valori liberali etici.

E QUANTA ETICA ci sia nei valori che propone lo mostrano bene le sue credenziali democratiche: la sua partecipazione al colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chávez e alle violente proteste anti-chaviste del 2014 e del 2017 (le cosiddette “guarimbas”); il suo sostegno al governo ad interim del burattino Juan Guaidó, a cui poi avrebbe voltato le spalle rinfacciandogli – a ragione – di aver fallito su tutta la linea; il suo categorico rifiuto a negoziare con Maduro; le sue invocazioni all’intervento straniero.

Un curriculum, il suo, che in qualsiasi altro paese l’avrebbe condotta direttamente in galera ma che in Venezuela le è costata solo l’ineleggibilità per 15 anni. Cosicché è tutto da vedere se sarà davvero lei – alla guida di una litigiosissima Plataforma Unitaria, da cui peraltro è esclusa la cosiddetta opposizione democratica -, a sfidare alle presidenziali del 2024 il presidente Maduro, se, come tutti danno per scontato, si ricandiderà (nonostante la disaffezione nei suoi confronti di una non trascurabile parte dello stesso elettorato progressista).

Ed è questo il motivo per cui il governo, nella voce del viceministro delle politiche anti-embargo William Castillo, ha accusato la Plataforma Unitaria di ingannare gli elettori, facendo loro credere di poter «forzare» con il loro voto alle primarie la candidatura degli ineleggibili: «Coloro che non rispettano i requisiti di legge non potranno partecipare».

UN NODO, questo, rimasto irrisolto anche nell’accordo parziale firmato martedì a Bridgetown, nelle Barbados, dal governo Maduro e dai principali partiti di opposizione. Ed è un nodo che potrebbe scatenare una nuova conflittualità nel paese, riportandolo al punto di partenza.