Canzoni per pistoleri mistici
Storie Dal corrido al narcocorrido. In Messico le forme popolari che un tempo celebravano gli eroi della Rivoluzione sono state riconvertite al culto del crimine organizzato e della Santa Muerte
Storie Dal corrido al narcocorrido. In Messico le forme popolari che un tempo celebravano gli eroi della Rivoluzione sono state riconvertite al culto del crimine organizzato e della Santa Muerte
A Dio si chiedono i miracoli, alla Santa Morte i favori. In un paese dove la corruzione politica è dilagante, i giornalisti intimiditi e le forze dell’ordine responsabili di più crimini di quanti siano in grado di reprimere, non c’è da stupirsi se da alcuni anni questo vuoto istituzionale sia stato riempito da figure come Jesús Malverde, armato di folti mustacchi e pistole, San Judas Tadeo, il patrono delle cause perse, fino ad arrivare alla Santa Muerte in persona.
SANTI BANDITI, pistoleri mistici, bandoleros benedetti, madonne di tutti i reietti, scheletri di Vergini diabolicamente sorridenti a cui una porzione sempre più consistente della società delega il proprio bisogno di protezione. Un culto parallelo in cui chiedere ciò che lo Stato si ostina a negare: sicurezza, lavoro, salute e benessere. Ci si rivolge loro come ad un amico a cui chiedere un favore, un santo cui implorare la grazia, magari prima di commettere un reato. Ordinatamente disseminati in nicchie e cappelle ai bordi delle strade, avvolti da drappi colorati, al lume di ceri, cosparsi di originali ex voto tra cui spiccano banconote, dolci, tabacco, marijuana e l’immancabile tequila.
SIMBOLI DI UNA RELIGIOSITÀ popolare nata da una miscela di culture precolombiane, cristianesimo e superstizione al suono di una musica che sembra quella del liscio di una balera romagnola, con fisarmoniche, chitarre a 12 corde e trombette, al ritmo cadenzato di valzer, polca e mazurca. Folk messicano, musica norteña prodotta dagli immigrati del centro Europa arrivati dalla seconda metà dell’Ottocento in questo paese della cuccagna che difficilmente sarebbe riuscito a esaudirne le speranze. «Mi hanno mandato a uccidere e ho ucciso» canta oggi El Komander in Orden exigido…
SI CHIAMANO NARCOCORRIDOS e vanno di moda presso quei messicani che da tempo si identificano nel culto del crimine organizzato e di un’eccentrica vita di eccessi. Un mondo parallelo, amorale, in cui i delinquenti si convertono in eroi da emulare. Il fascino nei confronti della narco cultura e l’epica del bandito è oggi ai suoi massimi livelli, non solamente in Messico, come dimostra la popolarità di serie televisive come Narcos, Gomorra o Boardwalk Empire. I narcorridos parlano di onore e tradimenti, sesso, denaro e delitti, con tutti i luoghi comuni più tipici di una visione del mondo edonista quanto reazionaria. I loro interpreti, spesso giovanissimi, appaiono in scena con aria sprezzante, generalmente sovrappeso, coraggiosi e valenti, capelli unti, baffi, abiti eleganti, cappello da cowboy, anelli e collane d’oro, armi alla mano, mangiando tamales e tacos al guacamole.
NONOSTANTE I TENTATIVI di stati come Sinaloa e Bassa California di censurarli nelle radio, vietare i concerti, incriminarli per apología di reato, il Congresso nazionale si è dovuto fermare di fronte alla Costituzione, che tutela la libertà d’espressione. E mentre singoli stati o amministrazioni cittadine tentano di proibirle sul territorio messicano, queste canzoni spopolano in Guatemala, Honduras, El Salvador, Colombia e Venezuela. Ma è la lunga frontiera con gli Stati Uniti, duemila miglia di linea immaginaria che separa il nord dal sud del mondo, a rappresentare il luogo di più alto consumo dei narcocorridos.
I QUASI SEI MILIONI di ispanici residenti a Los Angeles sono un mercato troppo grande da perdere. In California, Texas e Florida il consumo di questa musica ha raggiunto livelli tali da indurre le etichette discografiche a finanziarne la produzione in loco. Un business da 300 milioni di dollari l’anno che nessun muro potrà contenere.
Molti di questi narcocorridos sono commissionati da illustri padrini appartenenti ad alcuni tra i cartelli più pericolosi, come quelli di Sinaloa e Tijuana, in un delirio narcisista he porta a finanziare in vita la costruzione del proprio mito. Una vera e propria epica in cui paragonarsi, senza alcuno scrupolo, agli antichi eroi della Rivoluzione del 1910, come Zapata e Pancho Villa, le cui gesta era abitudine immortalare nei celeberrimi corridos, una sorta di instant song dell’epoca, come un gazzettino ufficioso che narrava ai contadini, in gran parte analfabeti, una contro storia in metrica dell’attualità.
DISCENDENTE DAL ROMANCE medievale spagnolo e dalla copla del XVIII secolo, filtrato attraverso la cultura delle popolazioni native di lingua náhuatl, il corrido narra la realtà. I suoi interpreti sono stati gli eredi di una tradizione millenaria che spazia degli aedi dell’antica Grecia passando per l’epica medievale della canzone di gesta fino ad arrivare alla poesia improvvisata di numerose tradizioni come la toscana, sarda, vasca, andalusa, canaria, cubana e rioplatense, per citare solamente le più celebri.
OGGI, A POCO PIÙ DI CENTO ANNI dalla Rivoluzione, esistono veri e propri tariffari, tra i sette e i trentamila dollari, a seconda della fama e del potere del committente.
Con la fine degli echi rivoluzionari nel Messico del secondo dopoguerra, il corrido cominciò il suo lento declino, passando il testimone a generi ben più commerciali come la ranchera e il bolero, consacrati in tutto il mondo attraverso icone nazionalpopolari come Pedro Infante, José Alfredo Jimenez, Agustín Lara, Antonio Aguilar, Irma Serrano, Jorge Negrete fino a Chavela Vargas in compagnia degli immancabili mariachi. A partire dagli anni ’60 il corrido tornò brevemente in auge grazie al movimento studentesco, nutrendosi di nuove tematiche sociali come i conflitti agrari, gli scioperi di operai e sindacati in città contro la corruzione di un potere percepito sempre più arrogante e distante dai reali interessi della gente. Se Judith Reyes cantava la cronaca dei dissidenti in diretta, dall’esilio, convertendosi nella più grande cantautrice di protesta messicana, nelle grandi città il corrido diveniva lo strumento principale per dare voce ai nuovi invisibili.
DA UNA DECINA DI ANNI i vecchi bandoleros della disastrosa guerra contro gli Stati Uniti del 1848 (che sottrasse ai messicani il 55% del proprio territorio nazionale), celebrati come dei Robin Hood di altri tempi in lotta contro i latifondisti al grido di «terra e libertà», esattamente come gli eroi della Rivoluzione del 1910, sono stati sostituiti dai moderni delinquenti e narcotrafficanti in questo panteon nazionalpopolare dalla bocca non troppo sottile.
Tra il 2007 e il 2014, in seguito al tragico aumento della violenza in Messico che ha portato alla morte di 164 mila civili, una dozzina di cantanti vincolati al narcocorrido sono stati uccisi. Tra questi Valentin Elizade e Sergio Gómez, nominati postumi ai Grammy Awards del 2007. Ma il più amato di tutti resta Rosalino “Chalino” Sanchez, il prototipo del rude e dannato, freddato dopo un concerto a Culiacán, nel maggio del 1992. Da allora per molti è una leggenda.
Dai capostipiti Los Alegres de Terán, passando per Los Tigres del Norte, Los Implacables del Norte, Los Padrinos de la Sierra, Los Matadores del Norte, fino ai più giovani (e ancor più smaliziati) Grupo Exterminador, Calibre 50, El Komander, i nomi di queste band sono tutto un programma. Per non parlare delle canzoni, che hanno titoli come El avión de la muerte o Sanguinarios del M1 e testi che lasciano ben poco all’immaginazione («Con cuerno de chivo y bazuca en la nuca / volando cabezas al que se atraviesa / somos sanguinarios locos bien ondeados /nos gusta matar»).
GLI IDOLI DEL NARCOCORRIDO oggi non hanno più bisogno di etichette discografiche o di campagne di promozione. Basta una buona gestione delle reti sociali. Il popolo del web li osanna come paladini di una nuova era in cui tutto è concesso. Migliaia di follower si muovono per raggiungerli, riempiendo le sale da concerto anche a Los Angeles, Atlanta, Seattle. Sul palco giovani poco più che ventenni, vestiti rigorosamente di bianco o nero, cappello da cowboy, gilet carichi di cartucce, bazooka in una mano e mitraglietta nell’altra, si dimenano in improbabili pantomime melodrammatiche al grido di «Qué viva la muerte!». Dopotutto è solo un gioco, anche se non per tutti.
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